Accordo tra i 27 ministri del Lavoro della UE sulla Direttiva riguardante la cosiddetta clausola opt-out: ogni Paese potrà modificare la propria legislazione allungando la durata della settimana lavorativa oltre le 48 ore standard, spingendosi fino a 60 ore settimanali e per alcune categorie anche 65 ore.
Flessibilità o dumping sociale? La Ue assicura che l’accordo tutela i dipendenti: di fatto, per il prolungamento d’orario è necessario il consenso esplicito del lavoratore. Nel caso di lavoro a termine il contratto può però superare le 10 settimane.
I limiti potranno ulteriormente superati, se ci sarà un accordo con le rappresentanze dei lavoratori.
Sono serviti quattro anni di negoziati e sei tentativi per arrivare a tanto.
Attualmente, le ore lavorative sono le 48 che erano state sanzionate come un diritto sociale 91 anni fa dall’International Labour Organization.
Nel Regno Unito è dal 1993 che il datore di lavoro ha la possibilità di contrattare con i propri impiegati liberamente la durata settimanale delle loro prestazioni.
La stesura del testo comune è rimasta bloccata per anni a causa dell’opposizione di Francia, Italia e Spagna.
Ad abbandonare per prima la propria posizione è stata proprio l’Italia, a seguito del cambiamento di Governo l’Italia. A seguirla la Francia, dopo un accordo tra presidente della Repubblica francese e premier britannico: sì ad allungamento del tempo di lavoro ma anche sostegno alla riforma delle agenzie di lavoro a termine.
Rimasta isolata, la Spagna ha chiesto che le eccezioni alle 48 ore vengano eliminate dopo un periodo transitorio.
Il testo della Direttiva è ora in fase di bozza e in attesa di approvazione da parte dell’Europarlamento, a fronte delle forti opposizioni dei sindacati, alcuni dei quali parlano già di dumping sociale.