Si tratta indubbiamente di uno dei temi emergenti nel mondo del lavoro. Anche perché dal primo gennaio scorso è entrata in vigore la normativa che prevede l’obbligo per le aziende di valutare lo stress lavoro-collegato. Turni, carichi e ritmi di lavoro, incertezza delle prestazioni richieste, i rapporti fra colleghi e quelli con il capo. Sono tutti elementi che oggi le società devono tenere sotto controllo, effettuando specifiche valutazioni. Fra l’altro, se questo indubbiamente va a migliorare l’ambiente lavorativo, si tratta di un fattore che per l’azienda è conveniente anche in termini economici.
Un’indagine della Commissione Europea evidenzia che fra il 50 e il 60% dei giorni di lavoro persi nel Vecchio Continente sono dovuti a problemi di stress. Nella sola Gran Bretagna, si perdono per problemi di questo tipo circa 10 milioni di giorni lavorativi all’anno, mentre in Francia il costo dello stress è stimato fra i due e i tre miliardi di euro ogni anno. E ancora, i costi diretti legati allo stress equivalgono a qualcosa come il 4% del pil europeo.
Il rapporto di Bruxelles evidenzia anche come i paesi che hanno già recepito la normativa comunitaria, 19 in tutto, evidenzino miglioramenti, e aggiunge la considerazione che la legge ha comunque prodotto un beneficio in termini di maggior sensibilizzazione al problema.
Anche Patrizia Deitinger, psicologa dell’Ispesl (istituto superiore per la prevensione e sicurezza sul lavoro, confluito nell’Inail) sottolinea che «ci si è sempre preoccupati della tutela dei lavoratori e questo è sì lodevole, ma sono stati sottovalutati i vantaggi per le aziende in termini di meno assenteismo e di maggiore produttività». Perchè «se un lavoratore si sente bistrattato o non partecipe, è chiaro che renderà meno».
Fra i lavori più a rischio stress, ci sono quelli dell’area sanitaria, ad esempio gli infermieri, gli autotrasportatori, gli addetti ai call center o agli uffici reclami. In genere, i lavori che prevedono un continuo contatto con il pubblico e quelle che prevedono una turnazione.
La valutazione serve per comprendere, e ridurre al minimo, i fattori di rischio. Va fatta su gruppi di dipendenti esposti allo stesso modo (ad esempio, gli addeeti a uno stesso settore, i turnisti, e così via), e si articola in due fasi: una preliminare, per rilevare indicatori oggettivi, e una seconda a cui si procede nell’eventualità che si rilevino elementi di rischio.
Esistono numerosi studi che si occupano di indagare sullo stress da lavoro. I ricercatori del Centre for Addiction and Mental Health (Camh) canadese, ad esempio, avvertono che preoccuparsi eccessivamente delle proprie performance e impegnarsi eccessivamente per conseguire risultati brillanti può essere nocivo. I lavoratori troppo infaticabili a lungo andare danneggiano se stessi e anche l’azienda, visto che in genere fanno più assenza legate a motivi di salute.
Per concludere con una nota di maggior leggerezza, citiamo un altro studio, di carattere più generale: si tratta del “Logevity Project” di Howard S. Friedman e Leslie Martin, che hanno proseguito un lavoro cominciato nel 1921 da Lewis Terman, docente a Stanford e che ribaltano alcuni luoghi comuni. Qualche esempio? Non è vero che andare in pensione il prima possibile e dedicarsi poi al golf sia salubre e allunghi la vita. Non è vero che il matrimonio allunghi la vita. Non è vero che le preoccupazioni facciano male alla salute. Non è vero che avere pensieri piacevoli riduce lo stress.
Più che al mangiare sano, al fare jogging o al rilassarsi, la longevità è legata alla felicità, alla consapevolezza, al senso della misura, all’adattabilità dell’individuo.