La versione definitiva della famigerata Web Tax inclusa nella Legge di Stabilità non è propriamente una tassa in senso stretto ma un provvedimento atto a bloccare la “scappatoia” contabile di molti player stranieri della New Economy come Google e Facebook che finora potevano evitare di pagare un tributo al Fusco italiano.
Il provvedimento prevede l’obbligo di acquistare servizi di pubblicità , link sponsorizzati online e spazi pubblicitari solo da soggetti titolari di partita IVA italiana. Le multinazionali sfruttavano invece finora una debolezza delle norme europee, pagando le tasse solo sugli introiti derivanti dalle attività operate sul porprio suolo nazionale e non quello generato da attività operate per loro conto da società controllate con sede legale in paesi terzi. La Web Tax italiana si prefigge proprio di rendere tracciabili tali introiti quando sono frutto di operazioni italiane, permettendo così al Fisco italiano di non venire scavalcato.
Come? Obbligando gli inserzionisti a comprare pubblicità digitale e servizi connessi soltanto da Partite IVA italiane. Finora, invece, si poteva creare una società in Irlanda che detiene la proprietà intellettuale, affidando ad una seconda società irlandese la conduzione commerciale dei servizi legati al marchio e la relativa fatturazione degli introiti (compensando con le royalties della prima società gli attivi e i passivi). In questo modo, la prima società paga le tasse, ma siccome l’Irlanda ha rapporti vantaggiosi con realtà come le isole Cayman, la maggior parte degli imponibili vengono fatti sparire. Per molti la WebTax rischia comunque di allontanare le aziende straniere penalizzando ancora, semmai ce ne fosse bisogno, il mercato italiano. Il vero nodo è trovare un giusto equilibrio tra nuove forme dell’economia con le legislazioni dei diversi Paesi.
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