


Proprio quando la politica monetaria restrittiva della BCE cedeva il passo ad un avvio progressivo dei tagli ai tassi di interesse, sul fronte internazionale sono tornate a salire le barriere commerciali rendendo il contesto economico globale nuovamente fragile per via delle tensioni sui dazi tra Stati Uniti, Europa e Cina. L’Italia, fortemente esposta all’export, rischia un rallentamento su entrambi i fronti: monetario e geopolitico.
Il taglio dei tassi da parte della BCE
La prossima riunione di politica monetaria della Banca Centrale Europea è prevista per giovedì 5 giugno 2025 a Francoforte. In questa occasione, il Consiglio direttivo della BCE valuterà le condizioni economiche dell’Area Euro e prenderà eventuali decisioni sui tassi di interesse, illustrate dalla presidente Christine Lagarde e del vicepresidente Luis de Guindos.
Il 17 aprile scorso, intanto, la BCE ha tagliato i tre tassi di riferimento di 25 punti base. Il tasso sui depositi è stato portato al 2,25%, quello sulle operazioni di rifinanziamento principali al 2,50% e il tasso marginale al 2,75%. Si tratta del primo segnale concreto verso una fase di allentamento, sostenuto da una dinamica inflazionistica in calo e da una crescita economica dell’Eurozona che resta debole.
L’istituto centrale ha segnalato che la politica monetaria resterà dipendente dai dati, sottolineando che l’inflazione core – al netto di energia e alimentari – continua a scendere, soprattutto nei servizi. Tuttavia, restano elementi di incertezza che potrebbero frenare ulteriori interventi nel breve termine.
La guerra commerciale che penalizza l’Italia
La nuova fase di tensioni commerciali, innescata dagli annunci statunitensi di nuovi dazi contro Cina ed Europa, coinvolge direttamente anche l’Italia. Le nuove tariffe americane fino al 25% su acciaio, auto e prodotti tecnologici europei potrebbero colpire in particolare il nostro export manifatturiero.
Secondo stime di Scope Ratings, se i dazi venissero applicati in modo esteso, l’Italia rischierebbe una riduzione del PIL reale tra 0,5 e 1 punto percentuale nel triennio 2025-2027. Le esportazioni verso gli Stati Uniti valgono circa 65 miliardi di euro l’anno e coinvolgono settori strategici come meccanica, moda e agroalimentare.
A ciò si aggiunge il rischio di un “effetto deviazione”: le merci cinesi rifiutate dal mercato USA potrebbero riversarsi su quello europeo, alterando la concorrenza e mettendo sotto pressione alcune filiere italiane. Per questo motivo il Ministero delle Imprese ha chiesto alla Commissione UE di valutare misure di salvaguardia.
Le ultime di Trump sulle tariffe doganali
Il 2 maggio, il presidente Trump ha annunciato una nuova tariffa del 120% su tutti i pacchi e-commerce provenienti dalla Cina con un valore inferiore agli 800 dollari. La misura abroga l’esenzione doganale precedentemente prevista per i pacchi a basso valore, colpendo in particolare piattaforme come Temu e Shein, largamente utilizzate dai consumatori statunitensi. A questa iniziativa ha fatto seguito, il 9 maggio, una dichiarazione formale da parte della Casa Bianca secondo cui verrà mantenuta una tariffa minima del 10% su tutte le importazioni, anche dopo l’eventuale sigla di nuovi accordi commerciali. L’obiettivo è consolidare la produzione interna e ridurre la dipendenza da fornitori esteri.
Il 12 maggio Stati Uniti e Cina hanno annunciato una sospensione reciproca di parte dei dazi punitivi per un periodo iniziale di 90 giorni. L’accordo, raggiunto a Ginevra, prevede che gli Stati Uniti riducano le tariffe sulle importazioni cinesi dal 145% al 30%, mentre la Cina abbasserà i dazi sulle merci statunitensi dal 125% al 10%. La sospensione entrerà in vigore entro il 14 maggio e sarà accompagnata da ulteriori negoziati per risolvere le tensioni commerciali tra le due potenze.
Queste decisioni lascerebbero sperare in una de-escalation delle tensioni con la Cina e un impegno per rendere più accessibili i farmaci ai cittadini americani. Ma considerata l’imprevedibilità delle decisioni di Trump sulle tariffe commerciali, è decisamente tutto da vedere.
Parallelamente, però, il presidente Donald Trump ha però annunciato anche la firma di un ordine esecutivo volto a ridurre i prezzi dei farmaci da prescrizione e dei prodotti farmaceutici negli Stati Uniti. Secondo quanto dichiarato, la misura mira a portare ad a una diminuzione dei prezzi compresa tra il 30% e l’80%, con l’obiettivo di allineare i costi dei medicinali statunitensi a quelli dei Paesi con prezzi più bassi. Una sorta di ultimatum alle case farmaceutiche: riducono i prezzi o scontano nuovi dazi.
Le ultime mosse, comunque, se lette insieme, rappresentano quanto meno una temporanea inversione di tendenza nella strategia protezionista dell’amministrazione USA e un tentativo di rispondere anche alle pressioni interne sul fronte del potere d’acquisto.
L’impatto dei dazi su Europa e Italia
Il 2 aprile, il presidente Trump ha annunciato l’introduzione di dazi del 20% su tutte le importazioni provenienti dall’Unione Europea, inclusa l’Italia, nell’ambito della sua strategia di “dazi reciproci”. La misura è stata poi parzialmente ricalibrata con una riduzione al 10% e la sospensione per 90 giorni, per permettere l’avvio di negoziati con Bruxelles.
A livello comunitario, l’UE ha approvato un pacchetto di contromisure tariffarie per un valore di oltre 21 miliardi di euro, sospese anch’esse per 90 giorni in attesa dell’esito delle trattative. Ursula von der Leyen ha ribadito che, in caso di fallimento del negoziato, l’Unione è pronta ad attivare misure aggiuntive, inclusa una tassa sui servizi digitali offerti da grandi aziende statunitensi.
L’Italia è tra i Paesi più esposti, data la sua forte dipendenza dall’export verso gli Stati Uniti, in particolare nei settori della meccanica, dell’automotive e dell’agroalimentare. In risposta, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha chiesto alla Commissione europea maggiore flessibilità fiscale per contrastare gli effetti economici dei dazi. Il 17 aprile scorso, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha incontrato Donald Trump alla Casa Bianca per discutere delle relazioni commerciali e proporre un quadro negoziale stabile tra USA e UE, a tutela degli interessi italiani.
Al momento non sono stati annunciati nuovi accordi bilaterali con l’Unione Europea o l’Italia, ed il mantenimento di dazi strutturali resta una minaccia per i settori chiave dell’export italiano, in particolare quelli legati a meccanica, automotive e beni di consumo. L’approccio protezionista continua dunque a creare incertezza, ostacolando la possibilità di una ripresa solida degli scambi con gli Stati Uniti.
Scenari export Italia-Cina-USA
Secondo i dati ISTAT, nel 2024 l’Italia ha esportato beni per circa 65 miliardi di euro verso gli Stati Uniti e 22 miliardi verso la Cina. Gli USA rappresentano il terzo mercato extra-UE per le imprese italiane, dopo Svizzera e Regno Unito, con un forte peso di meccanica strumentale, automotive e agroalimentare. La Cina si posiziona al nono posto tra i principali mercati di sbocco, ma con una composizione merceologica più frammentata e legata anche alla moda e alla chimica. Nel contesto attuale, l’inasprimento delle relazioni commerciali tra USA e Cina rischia di generare due effetti opposti ma convergenti sull’Italia:
- da un lato, un rallentamento della domanda statunitense di beni europei a causa dei dazi potrebbe ridurre la competitività dell’export italiano negli Stati Uniti;
- dall’altro, un aumento delle esportazioni cinesi verso l’Europa – in cerca di nuovi sbocchi – rischia di alterare la concorrenza in settori chiave, soprattutto elettronica, tessile e componentistica.
In particolare, il Centro Studi Confindustria ha stimato che un’escalation commerciale potrebbe impattare negativamente fino al 15% delle esportazioni italiane in valore verso i due Paesi entro il 2026. I settori più esposti risultano essere:
- macchinari industriali e veicoli,
- abbigliamento e calzature,
- prodotti chimici e plastica.
Le aziende italiane potrebbero essere costrette a diversificare i mercati di sbocco, rafforzando la presenza in aree come Medio Oriente, India e Sud-est asiatico, dove la domanda di Made in Italy resta solida ma con margini ancora da sviluppare.