Vietato sacrificare la reputazione dei collaboratori

di Teresa Barone

24 Aprile 2013 09:00

La reputazione dei dipendenti può essere sacrificata solo in casi estremi: lo stabilisce la Cassazione dettando l?ABC del buon dirigente.

In una recente sentenza emessa dalla Corte di Cassazione sono sintetizzati i comportamenti che un dirigente non dovrebbe mai adottare, o meglio, alcune delle regole comportamentali mirate a garantire il rispetto di collaboratori e dipendenti.

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Esprimendosi in merito al ricorso di un dirigente condannato per aver screditato un suo dipendente in sua assenza e nel corso di una riunione (definendolo “incapace a ricoprire il suo ruolo”), la Corte Suprema ha infatti ribadito che un capo che si rispetti ha il dovere di tutelare la reputazione dei propri collaboratori, specialmente in un contesto pubblico.

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«Non è consentito con la parola o con qualsiasi altro mezzo di espressione, ledere l’altrui reputazione, salvo che per tutelare interessi riconosciuti dall’ordinamento».

Così ha stabilito la Cassazione, sottolineando tuttavia come un dirigente abbia il dovere di:

«Accertare se il sacrificio della reputazione del dipendente sia proporzionato all’interesse perseguito».

Una sentenza esemplare che mette nero su bianco alcuni limiti che i dirigenti non dovrebbero superare. Nel caso specifico del presidente di Coop Centro Italia, inoltre, a nulla sono valse le motivazioni esposte per impedire la condanna per diffamazione. Il manager ha infatti definito le sue azioni come una:

«Libera manifestazione di pensiero consentita a chiunque in uno stato democratico, in via generale, e a maggior ragione nell’ambito di un rapporto subordinato dove e’ riconosciuto al datore di lavoro un potere valutativo e disciplinare».