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Delocalizzazione addio, è tempo di back reshoring

di Alessia Valentini

Pubblicato 2 Giugno 2014
Aggiornato 13 Ottobre 2014 07:57

Le aziende tornano a produrre in Italia: esempi pratici di marchi locali e perfino esteri che hanno scoperto i vantaggi di una produzione made in Italy.

Recenti studi hanno evidenziato una crescente tendenza nel comparto industriale ad abbandonare la delocalizzazione in favore di un definitivo back reshoring (rientro della produzione nel paese di origine). Su 376 casi di studio, l’Italia si colloca al secondo posto in classifica (con 79 aziende), dopo gli USA ma prima di Germania, Inghilterra e Francia (dati UniCLUB MoRe Back-reshoring Research Group). Il fenomeno è infatti più consistente nei paesi con economie basate sul manifatturiero.

L’Osservatorio, articolato per settori merceologici, è un utile strumento a supporto di imprese e governi, nel più vasto quadro del processo di rilancio dell’economia italiana, riguardando non soltanto i rientri di produzione in Italia ma anche i casi di aziende estere che spostano da noi la produzione, in ottica near-shoring (delocalizzazione in paesi limitrofi).

=>Quando non delocalizzare conviene

Motivi del rientro

Fra le realtà italiane che hanno attuato il back-shoring, spiccano Beghelli, Bonfiglioli, Faac, Furla e Wayel, che hanno lasciato Cina, Repubblica Ceca e Slovacchia per tornare a produrre in Italia, principalmente per motivi economici: il trasferimento merci incide oggi più che in passato, riducendo i margini a causa dell’aumento dei costi. Fra le motivazioni, dunque, la logistica incide per il 92%. Le altre cause: condizioni di mercato stagnanti che costringono a tenere le merci ferme sui mezzi di trasporto con conseguente lievitazione dei costi; aumento dei costi produttivi nei paesi ospitanti; scarsa qualità produttiva; ritardo nelle consegne; incentivi al rientro produttivo in Patria (in minima parte).Non da ultimo, per il ritorno in patria incide la rinnovata forza del marchio made in Italy, sinonimo di valore aggiunto. Furla (Bologna) è tornata in Italia per la scarsa qualità delle produzioni asiatiche, Nannini (Firenze) con lo stesso criterio ha abbandonato l’Europa dell’Est.  Gli Yacht di Azimut sono tornati dalla Turchia e la Mediolanum Farmaceutici ha lasciato Parigi per concentrare la manifattura in provincia di Lodi.  In qualche caso è stato necessario ristrutturare, affrontando esuberi e optando per semplificazioni organizzative, come nel caso della Bonfiglioli Riduttori.

Rilocalizzazione

Il passaggio successivo all’abbandono della delocalizzazione, dunque, è spesso la ri-localizzazione di cui ci sono già esempi significativi. Gucci da due anni ha avviato iniziative di valorizzazione della propria catena produttiva certificando la filiera in Italia, garantendo un accesso al credito agevolato per le imprese collegate, promuovendo responsabilità sociale e ambientale.

=> Ri-local: il Made in Italy su misura

Nonostante innegabili limiti burocratici e legislativi, molte aziende estere hanno scelto l’Italia per “delocalizzare” riconoscendo il valore delle sue professionalità e dell’artigianato locale. La Philip Morris  ha stipulato un accordo con Coldiretti per la consegna e acquisto di tabacco italiano a chilometro zero. L’obiettivo è salvaguardare le coltivazioni di Burley e FCV Bright, fondamentali per l’occupazione locale: l’accordo 2014-2015 garantirà all’Italia la vendita del 60% e 30% rispettivamente delle due qualità di tabacco greggio prodotto (in Veneto, Umbria, Campania e Toscana, ma anche in Lazio, Abruzzo, Marche e Friuli Venezia Giulia). Come nel caso Gucci, l’accordo prevede l’adozione di programmi per la divulgazione e il monitoraggio di buone pratiche agricole, condizioni di lavoro sostenibili della produzione e responsabilità sociale dei produttori che parteciperanno al contratto di fornitura.