Comporto e licenziamento: la tempistica corretta

di Noemi Ricci

Pubblicato 17 Dicembre 2017
Aggiornato 17 Dicembre 2019 09:44

In caso di superamento del periodo di comporto il licenziamento può anche non essere immediato: normativa e sentenze di Cassazione.

Per periodo di comporto si intende l’arco temporale in cui, in caso di malattia, il lavoratore ha diritto di conservare il posto di lavoro, ovvero non può essere licenziato se non per giusta causa, giustificato motivo oggettivo o per cessazione totale dell’attività di impresa.

Il licenziamento è ammesso scaduta la finestra temporale prevista dalla legge o dai CCNL, a meno che lo stato di malattia non dipenda dalla violazione di misure di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

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Rinuncia al licenziamento

Il datore di lavoro può consentire al dipendente la ripresa del lavoro nonostante le tante assenze abbiano portato al superamento del periodo di comporto, senza che questo comporti la rinuncia al diritto di licenziamento per superamento del comporto. Il tutto a patto che l’intimazione del licenziamento dipenda effettivamente dal fatto contestato, come chiarito dalla sentenza della Corte di Cassazione n.16462/2015.

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Qualora il licenziamento venga intimato immediatamente, al superamento del periodo di comporto, il datore non è obbligato a fornire alcuna prova del fatto che il recesso è dipeso dalla protratta assenza e ricade sul lavoratore l’onere di provare che tale riammissione costituisce una manifestazione tacita della volontà del datore di lavoro di rinunciare al diritto di recesso. Prova invece necessaria in caso di licenziamento intimato dopo un apprezzabile intervallo di tempo.

La valutazione della congruità o meno del tempo intercorso fra la ripresa del lavoro ed il licenziamento spetta al giudice che deve tenere conto soprattutto delle caratteristiche organizzative e dimensionali dell’impresa.

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I giudici supremi, richiamando la sentenza della stessa Corte n. 9032/2000) hanno ribadito:

“In ipotesi di avvenuto superamento del periodo di comporto, l’accettazione, da parte del datore di lavoro, della ripresa della attività lavorativa del dipendente non equivale di per sé a rinuncia al diritto di recedere dal rapporto, ai sensi dell’art. 2110 cod. civ., e quindi non preclude (salvo diversa previsione della disciplina collettiva) l’esercizio di tale diritto, ferma peraltro la necessità della sussistenza di un nesso causale fra la intimazione del licenziamento ed il fatto (superamento del periodo di comporto) addotto a sua giustificazione”.

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Onere della prova

Nella sentenza si legge inoltre che:

“L’onere della prova della sussistenza di tale nesso (che è in “re ipsa” in ipotesi di licenziamento intimato non appena superata la soglia del comporto) è a carico del datore di lavoro nel caso di licenziamento intimato dopo un apprezzabile intervallo, mentre, nel caso di licenziamento intimato dopo pochi giorni dalla riammissione in servizio, è onere del lavoratore provare che tale riammissione costituisce nel caso concreto – eventualmente in concorso con altri elementi – una manifestazione tacita della volontà del datore di lavoro di rinunciare al diritto di recesso. Tale criterio temporale di discriminazione dell’onere probatorio ha, peraltro, valore solo indicativo, spettando in definitiva al giudice del merito (che è tenuto a dare ragione del proprio convincimento) valutare la congruità o meno (con riguardo, in particolare, alle caratteristiche organizzative e dimensionali dell’impresa) del tempo intercorso fra la ripresa del lavoro ed il licenziamento”.