Home restaurant senza regole: facciamo il punto

di Barbara Weisz

9 Luglio 2015 16:21

Home restaurant (ristorante a domicilio) tra deregulation, proposte normative, pareri ministeriali e codice di autoregolamentazione: prima di avviare un'attività è bene informarsi a livello locale.

Per aprire un home restaurant in Italia servirebbe quanto meno la SCIA (Segnalazione certificata di inizio attività): non è però un obbligo di legge, in quanto la ristorazione a domicilio, pur riscuotendo un crescente successo (con il moltiplicarsi di siti web dedicati al social eating), al momento non è regolamentata. Ad oggi ci si limita ad un parere del Ministero dello Sviluppo Economico, contenuto nella Risoluzione 50481  (aprile 2015) in risposta a uno specifico quesito posto da una Camera di Commercio e relativo alla corretta qualificazione dell’attività.

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Si tratta di una nuova frontiera della  sharing economy nel campo della ristorazione: uno chef o aspirante tale (o semplicemente una persona che ama cucinare e ricevere gente) propone una cena a un determinato prezzo, pubblicizzandola su portali Internet, social network o sito personale: riceve le prenotazioni, predispone e offre la cena a casa propria.
In Italia non ci sono leggi specifiche per l’home restaurant, attività  spesso  esercitata senza svolgere alcun adempimento da parte dell’host (colui che organizza la cena a casa propria), se non il normale rilascio di una ricevuta. Si rientra così nel campo delle attività esercitate in forma occasionale, che possono rimanere tali fino a 5mila euro annui di ricavi. Secondo il MiSE, tuttavia:

«anche se esercitata solo in alcuni giorni dedicati e tenuto conto che i soggetti che usufruiscono delle prestazioni sono in numero limitato, non può che essere classificata come un’attività di somministrazione di alimenti e bevande, in quanto anche se i prodotti vengono preparati e serviti in locali privati coincidenti con il domicilio del cuoco, essi rappresentano comunque locali attrezzati aperti alla clientela».

Secondo questa interpretazione si dovrebbe quindi applicare la legge 287/1991 (articolo 1), relativa alle attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande:

«per somministrazione si intende la vendita per il consumo sul posto, che comprende tutti i casi in cui gli acquirenti consumano i prodotti nei locali dell’esercizio o in una superficie aperta al pubblico, all’uopo attrezzati».

In realtà, però, l’articolo 3 della stessa legge, al comma 6 esclude dall’applicazione della norma le attività che si svolgono al domicilio del consumatore. Il punto della questione è che nell’home restaurant è comunque previsto il pagamento di un corrispettivo e quindi, pur con modalità innovativa, si tratterebbe di un’attività economica in senso proprio. Il Ministero cita anche un precedente parere (nota 98416 del 12 giugno 2013) che classificava come attività economica quella esercitata da un cuoco nella propria villa, fornendo il servizio solo su specifica richiesta e solo per gli invitati del committente.

Risultato: secondo il ministero, l’home restaurant è un’attività economica e quindi bisogna presentare la SCIA e non sottrarsi a tutti agli adempimenti del caso. Trattandosi soltanto di un parere, però, il consiglio per chi aspiranti host è di controllare se eventuali regolamenti regionali o comunali.

Il dibattito resta comunque acceso. Da una parte, le associazioni dei pubblici esercizi, come i ristoranti, accolgono con favore l’interpretazione del Ministero, in nome di una «competizione leale e corretta», spiega Enrico Stoppani, presidente Fipe (Fedeazione Italiana Pubblici Esercizi) per cui «a parità di attività ci vuole parità di regole, di tributi e di obblighi». Diversa l’opinione di chi organizza le piattaforme per il social eating, che sottolineano le differenze fra l’home restaurant e la ristorazione vera e propria nei pubblici esercizi. Su Change.org c’è una petizione online che chiede l’approvazione di un Disegno di legge, depositato in Senato nel 2014 ma mai approvato, che prevede la possibilità di utilizzare la propria abitazione, per un massimo di due stanze e fino a 20 coperti al giorno, ma anche l’obbligo di segnalare al Comune l’inizio attività (in pratica, servirebbe la SCIA). Fiscalmente, si resterebbe nell’ambito delle attività saltuarie.

Si può proporre una considerazione: sia l’interpretazione del ministero sia il disegno di legge che le stesse associazioni di social eating chiedono di approvare prevedono sostanzialmente il semplice obbligo di presentare la SCIA al Comune. Si tratta, fra l’altro, dello stesso obbligo a cui sono sottoposti, ad esempio, i bed & breakfast (una delle applicazioni si maggior successo della nascente sharing economy). In conclusione, una sintesi fra le diverse posizioni sembra a portata di mano.

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Quel che serve, in effetti, è una normativa di riferimento. Nell’attesa, segnaliamo che uno dei portali più noti del settore, Gnammo, ha lanciato un codice etico partecipato, che propone la differenziazione fra social eating (eventi saltuari e libera da adempimenti), e home restaurant (eventi organizzati con più regolarità e con maggior rilievo della componente economica).

Fonti: risoluzione ministero, petizione change.org, codice etico di Gnammo