Nel marasma dell’informatizzazione a tutti i livelli, dal web marketing al web 2.0, i rischi per la privacy aumentano a dismisura. Quasi che un’intera legione d’assalto fagocitasse tutto ciò che ci riguarda, dati personali, orientamenti, gusti, siti visitati, comunicati commerciali preferiti, prodotti che acquistiamo.
Insomma, senza tregua, la caccia ai dati sensibili via Internet, tallona ogni utente anche il più blindato. E allora perché non servirsene a proprio vantaggio? L’idea di Bernardo Huberman, direttore del Social Computing Research Group degli HP Labs, è di convogliare i dati sensibili in una borsa, quotandoli come se fossero azioni.
Idea balzana? Per innescare uno scambio produttivo d’informazioni fra molteplici operazioni commerciali e possibili fruitori, Huberman (con Christina Aperjis), ha presentato un report dettagliato, che già dal titolo “Un mercato per i dati privati obiettivi: pagare gli individui a seconda delle loro attitudini nei confronti della privacy”, la dice tutta su una vera e propria rivoluzione, a partire dal concetto di pubblico e privato. Si sta forse celebrando l’inizio di uno scambio coatto fra mercato e consumatori via Internet, come l’epilogo di Johann Faust che vende l’anima al diavolo?
Alla prova dei fatti, Huberman fa notare quanto l’opinione pubblica spinga su una concreta, iniqua duplicità: da una parte le compagnie e i loro significativi profitti sulla compravendita dei dati – utente, dall’altra, gli individui da cui provengono quei dati, non riconosciuti nello scambio di contrattazione. L’introduzione al paper indica il debutto in borsa di Facebook come stimolo a una discussione sull’opportunità che siano anche gli stessi utenti ad avere benefici dai dati trattati e, in generale, non c’è alcun motivo per cui le società non debbano riconoscere un prezzo alle persone, pur continuando a utilizzare dati sensibili a scopo commerciale.
Un prezzo alla propria privacy, questa l’idea di Huberman; una borsa dei dati personali con operatore di mercato. Per quanto singolare e in certo senso allettante, la proposta riscontra diffidenze e una serie di difficoltà. Ad esempio, dalle compagnie che incamerano tonnellate di dati personali in maniera gratuita e spesso del tutto impropria, fino agli utenti che potrebbero alzare i prezzi a dismisura per consentirne l’accesso, creando un effetto per così dire, speculativo. Il rischio è che le compagnie preferiscano di gran lunga dati a buon mercato, ottenendo campioni inattendibili da un punto di vista statistico.
Tuttavia, Huberman individua la soluzione anche a questo problema: tra utenti e apotziende rebbe frapporsi un intermediario, un soggetto super partes (e qualcuno già indicherebbe Facebook), incaricato d’informarsi sulle cifre e rilanciare offerte. Con una trattativa, l’intermediario avrebbe la possibilità di selezionare una sequenza oggettiva d’utenti (in termini tecnici, unbiased), attingendo da due diverse categorie (“Hai la possibilità che i tuoi dati siano comprati da un solo acquirente a un costo di dieci dollari, oppure puoi guadagnare un dollaro a prescindere che essi siano acquistati o meno” e via discorrendo…).
Fantascienza? Non precisamente, l’advertising online è un mercato in continua crescita attestante intorno ai 68 miliardi di dollari, quello dei Big Data raggiungerà presto i 50 miliardi di dollari.