Tagli agli stipendi dei manager di Stato?

di Andrea Barbieri Carones

19 Dicembre 2011 11:00

La manovra Monti potrebbe tagliare alcuni stipendi di top manager di Stato, anche se i termini sono ancora in forse come il tetto di 311mila euro.

La scure della manovra “salva Italia” potrebbe abbattersi anche su alcuni manager di Stato o di aziende municipalizzate. Per ora, tuttavia, nessun taglio ai privilegi acquisiti nel corso degli anni da parte di funzionari che in alcuni casi percepiscono pensioni d’oro senza aver versato contributi in maniera proporzionale.

Fatto sta che qualcosa si sta muovendo e forse gli italiani riusciranno a far fronte alla manovra sapendo di non essere gli unici a pagare: il governo ha fissato a 305mila euro il tetto alle retribuzioni dei dirigenti di aziende pubbliche (portato poi a 311mila nel giro di 24 ore per pareggiare il guadagno annuale del primo presidente della Corte di Cassazione). Peccato solo che non valga per le aziende quotate in Borsa, dove tale limite è lasciato al libero arbitrio dei consigli di amministrazione quando non degli stessi rappresentanti dell’Esecutivo e peccato che non valga per quei manager “nelle posizioni di vertice delle rispettive amministrazioni”.

Fra i  manager che potrebbero vedere una riduzione dei propri emolumenti c’è il 52enne presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella, che dovrebbe dire addio a 165mila euro su 475.643. Più o meno stessa sorte e cifre simili per il numero uno dell’Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, che guadagnerà come il direttore dei Monopoli di Stato Raffaele Ferrara che fino a oggi ha percepito 389mila euro annui come il segretario generale della Farmesina, Giampiero Massolo.

Andrà peggio al ragioniere generale dello Stato, Mario Canzio, che dovrà dire addio a 200mila euro all’anno, detratti dai 516mila percepiti fino a oggi pari a 1 miliardo di lire tondo tondo, tanto per ricordare la moneta che fu.

Certo: prima che questa norma entri in vigore, sarà necessario il solito decreto attuativo del governo dato che non è chiaro se dalla sforbiciata siano salvi alcuni “fortunati” dirigenti di Bankitalia e delle autority. E l’Antitrust potrebbe essere una di queste. Ma la speranza (dei cittadini) è l’ultima a morire.

Intanto, la scure potrebbe (o dovrebbe) anche colpire i doppi stipendi dei magistrati con doppio incarico che pertanto non potranno più cumulare in toto gli emolumenti da “legulei fuori ruolo” con quelli legati all’attività nell’amministrazione pubblica: potranno aggiungere solo il 25% di quanto già percepivano dall’amminsitrazione precedente.

C’è poi la questione degli stipendi dei top manager delle aziende pubbliche non quotate in Borsa, per i quali potrebbe arrivare un decreto attuativo con dei nuovi tetti a seconda delle dimensioni della società. Ci si chiede pertanto che fine farà il “conquibus” dell’amministratore delegato delle Poste, quel Massimo Sarmi che guadagna 1,5 milioni di euro l’anno, o del suo presidente, quel Giovanni Ialongo che ne incamera poco meno della metà.

Ci sono poi diversi altri incarichi in aziende pubbliche, ricoperti da persone che non salgono mai agli onori della cronaca e che guadagnano cifre interessanti, che risultano ancor più interessanti in un momento economico come questo.

Ecco alcuni esempi. Al comune di Bologna, Giacomo Capuzzimati ha un duplice ruolo: direttore generale e direttore
dipartimento qualità della città. Per ciascuno di questi 2 incarichi si mette in tasca 140.000 euro l’anno. All’Acea di Roma, il consigliere Andrea Paruzy ne guadagna 114.000. Sempre meno di Giuseppe De Leo, che in quanto direttore generale del comune di Fano e vicesegretario del sindaco gli vengono accreditati ogni anno 110.592 euro per ciascuna posizione. Fabrizio Cherchi, direttore amministrativo dell’Università Statale di Cagliari, “sopravvive” con 147.523,10 euro l’anno, pari a 12.293 euro e rotti ogni mese, 2.000 in meno di Francesco Tofoni, responsabile dei “servizi diversificati” dell’Atm, l’azienda municipale di trasporto pubblico di Milano.

A furia di sommare cifre “ragguardevoli”, la presidenza del Consiglio ha visto un peso crescente in quanto a costi a carico del contribuente: se nel 2006 ci costava 3,62 miliardi di euro ogni anno, nel 2010 è arrivata a quota 4,2 miliardi mentre fra quest’anno e il prossimo potrebbe sfondare quota 5.