Rapporto di lavoro: il patto di stabilità 

di Roberto Grementieri

Pubblicato 6 Dicembre 2010
Aggiornato 12 Febbraio 2018 20:40

Le parti possono inserire nel contratto di lavoro a tempo indeterminato, all’atto della stipulazione o durante il suo svolgimento, una clausola di durata minima garantita (o patto di stabilità ), con la quale una o entrambe si impegnano a non recedere dal contratto per un periodo determinato di tempo.

La clausola, che può essere apposta nell’interesse del solo datore di lavoro, del lavoratore, oppure di entrambi i contraenti, non necessita della forma scritta né ai fini della validità  né per la prova.

In caso di apposizione del patto di stabilità , il recesso si ritiene giustificato solo se avviene per:
a) giusta causa;
b) impossibilità  della prestazione.

Il mancato rispetto della clausola da parte del datore di lavoro comporta la corresponsione al lavoratore, a titolo di risarcimento del danno, delle retribuzioni che quest’ultimo avrebbe percepito qualora il rapporto non fosse stato risolto anticipatamente rispetto alla durata minima garantita.

Inoltre, restano ferme le conseguenze in caso di invalidità  del recesso, differenziate a seconda del tipo di tutela applicabile.

Qualora, invece, sia il lavoratore a recedere anticipatamente in violazione del patto, egli deve risarcire il danno recato al datore di lavoro.
Tale risarcimento può essere commisurato ai costi che il datore di lavoro ha sostenuto per l’addestramento del lavoratore, oppure all’importo della retribuzione corrispondneti al periodo non lavorato, o ancora determinato in misura fissa prestabilita.

Per gli aspetti contributivi e fiscali, il mancato rispetto del patto da parte del datore di lavoro obbliga quest’ultimo ad un’erogazione di carattere insieme retributivo e risarcitorio, soggetta a contribuzione ordinaria e tassazione separata con applicazione dell’aliquota utilizzata per la tassazione del TFR.