Quando il presidente americano John Fitzerald Kennedy annunciò il lancio del progetto Apollo per andare sulla Luna, disse: «Abbiamo scelto di fare questo non perchè è facile, ma perchè è difficile e perchè c’è una nuova conoscenza da guadagnare e che deve essere utilizzata».
E questo secondo un lavoro sullo stato dell’Università italiana dell’European House Ambrosetti, contenuto nella Lettera del Club, è «forse il viatico che il Paese, l’università e i singoli atenei dovrebbero prendere». Lo studio mette in luce i punti critici (molti) del sistema di istruzione accademica della Penisola, vicino «a una situazione di vera emergenza», e fa una serie di proposte.
Un miglioramento del livello universitario si traduce in un recupero di competitività del paese, e secondo l’analisi del Club Ambrosetti comporta un aumento potenziale del pil pari a 15 miliardi all’anno.
Il 62% dei premi Nobel italiani (che comunque nelle discipline scientifiche sono pochi rispetto alle altre principali economie mondiali) lavorano all’estero (per fare un confronto, gli americani vivono tutti in patria, i francesi pure, gli inglesi sono all’estero solo nell’1% dei casi, i tedeschi hanno una percentuale più alta, del 27%, ma hanno anche circa il quintuplo del premi Nobel in termini assoluti).
Nel QS World university ranking 2010, la classifica dei 500 migliori atenei del mondo, che misura la qualità della ricerca, l’occupabilità dei laureati, le risorse dedicate all’insegnamento e l’impegno per l’internazionalizzazione, compaiono solo 15 italiane. Di queste, nessuna è nella top100, e solo due fra le prime 200, ovvero l’università di Bologna, 176esima (retrocessa di due posti dall’anno scorso) e La Sapienza di Roma, 190esima (ma in salita, 15 gradini in più dell’anno scorso).
Fra le 15 presenti nella top500, ci sono due new entry, le statali di Milano e Torino, e un solo ateneo del Sud, la Federico II di Napoli, che però con il 401esimo posto sale di 50 posizioni dall’anno scorso. Le altre: Padova (261esima), Politecnico di Milano, 295, le università di Pisa, 300, Firenze, 328, Pavia, 363, e tutte dopo il numero 400 Trento, Triestre, Roma Tor Vergata, Politecnico di Torino, università di Siena.
Al primo posto nel mondo c’è la britannica Cambridge, che ha superato l’americana Harvard, scesa al secondo posto dopo una leadership che durava dal 2004.
Dunque, il sistema universitario italiano ha una scarsa competitività internazionale, come si evince dalla classica, una bassa internazionalizzazione (il 2,4% di studenti stranieri, contro percentuali dei paesi Ocse che vanno dal 10 al 40%) e poca efficacia: il 20% di laureati fra i giovani da 25 a 34 anni, contro una media del 30% dei paesi di confronto, causata soprattutto da un alto numero di abbandoni.
Fra le cause più rilevanti: sistema di remunerazione dei docenti poco meritocratico, scarsa meritocrazia anche fra gli studenti, poca mobilità sociale, bassa internazionalizzazione, troppi atenei (88 nel 2009) tutti legalmente uguali, bassi stipendi e pochi fondi per la ricerca, forte dipendenza economica dal ministero e poca capacità di attirare altri fondi.
Il sistema, secondo l’analisi, deve puntare su recupero della meritocrazia, maggior autonomia dei singoli atenei, visione strategica, fondi. Fra le proposte, l’allocazione dei fondi secondo criteri di performaces, negoziazione diretta dei contratti fra docenti e università, con valutazioni legate al merito, fondi per l’attivazione di corsi di laurea in inglese, forum periodico per controllare l’attuazione della riforma, lancio annuale di una “tre giorni dell’università” per promuoverne la conoscenza.