All’inizio della settimana il governo americano ha congelato asset libici per 30 miliardi di dollari. Ieri la britannica Pearson, ovvero la casa editrice del Financial Times, ha congelato le azioni della quota, pari al 3,27%, in mano alla Libyan Investment Authority. L’Europa sta a sua volta discutendo sanzioni (che per ora riguardano persone fisiche legate al regime di Gheddafi), ma non ha ancora preso decisioni sulla questione delle quote libiche in società quotate, cosi’ come anche in Italia il dibattito è aperto.
Nella Penisola, sono diverse le aziende presenti nel listino di Piazza Affari che hanno partecipazioni di Tripoli. Il caso più noto è quello di Unicredit, in cui c’è un pacchetto riconducibile alla Libia intorno al 7,5%, composto da un 4,99% nelle mani della Banca Centrale di tripoli e da un 2,6% del fondo sovrano. I vertici di Piazza Cordusio hanno sottolineato in questi giorni che stanno seguendo la situazione con molta attenzione.
Restando in Italia, la Lia ha anche il 2.01% di Finmeccanica, il 7,5% della Juventus, mentre un altro veciolo d’investimento, la Libyan Arab Foreign Investment Company (Lafico) ha una quota inferiore al 2% in Fiat, un 14,8% in Retelit (società controllata da Telecom), il 21,7% in Olcese. Tripoli è infine presente nel capitale di Eni, con una quota intorno all’1%.
Ma lo shopping libico negli ultimi anni non ha riguardato solo le emittenti di Piazza Affari. Si calcola che la Libyan Investment Authority (Lia) abbia un patrimonio investito all’estero da 70 miliardi di dollari (ci sono anche stime più alte). Ci sono poi partecipazioni degli altri veicoli, come appunto Lafico o il Libyan African Investment Portoflio (Lap), o la stessa banca centrale, che riguardano una sessantina di società inglesi, olandesi, irlandesi, africane.
Qualche esempio: Lia ha circa il 5% della società turca di investimento immobiliare Emlak Konut GYO, ha circa l’1% nel gigante russo dell’alluminio Uc Rusal, il 13% della holding finanziaria giordana Zara Investment Holding. Il Lap ha centinaia di milioni di dollari investiti nella società londinese di asset management FM Capital Partners, e attraverso la Lap Green Network, creata nel 2007, possiede o controlla le compagnie telefoniche o le licenze in otto paesi africani.
Come già ricordato c’è la quota, ora congelata, in Pearson, e ci sono gli asset su cui è interventuo il governo americano: in questo caso, non si tratta di quote azionarie ma di contanti e obbligazioni. C’è poi il patrimonio immobiliare. La Lia è proprietaria del centro commerciale Portman House, in Oxford Street a Londra e sempre nella capitale inglese ha un palazzo a Cornhill, di fronte alla sede della Bank of England.
Una corposa rete di partecipazioni nei salotti buoni della finanza, insomma, che rappresentano un elemento da considerare nella valutazione degli effetti economici della crisi libica, da aggiungere alle reazioni del mercato del petrolio, e alle conseguenze per le aziende che hanno commesse o sono presenti nel territorio libico (un centinaio le italiane, per lo più nei settori energia, infrastrutture, costruzioni).