Uno studio di Eversheds mostra che le aziende con maggior numero di donne in consiglio di amministrazione hanno superato meglio la crisi finanziaria. Un’altra analisi, questa volta di Cerved, rileva che una presenza femminile pari almeno al 30% del board porta a risultati migliori, e addirittura dimezza il rischio di insolvenza. Si moltiplicano le ricerche che illustrano i benefici per le imprese che hanno donne manager al top, eppure il numero delle esponenti del gentil sesso in questi ruoli continua a essere basso.
Dalla ricerca di Evershed emerge addirittura una scarsa consapevolezza del fenomeno. Ad esempio, l’Eversheds board report ha analizzato le performances di 250 top company di Europa, Usa e Asia fra l’ottobre 2007 e il dicembre 2009, il periodo caldo della crisi, rilevando due fattori che hanno la più stretta relazione con un andamento migliore: un CdA composta da non troppe persone (al massimo 11 consiglieri), e un’alta percentuale di donne.
Quest’ultimo dato si è dimostrato particolarmente rilevante nelle aziende britanniche e nel settore bancario. Eppure, solo il 55% dei manager intervistati pensa che la diversità di genere nel board sia una chiave di successo, e solo la metà di questi è favorevole a intraprendere specifiche iniziative per aumentare la presenza delle donne in CdA.
E passiamo all’indagine di Cerved Group, realizzata per CorrierEconomia, su un campione di 2 mila imprese italiane sopra i 100 milioni di euro di fatturato nel 2008 e 2009. Quando c’è almeno il 30% di donne nel board (la percentuale prevista dalle legge attualmente in discussione in Parlamento) il Roe (return on equity) è stato mediamente dell’11,6%, contro il 9,1% registrato nelle società sotto il 30% di donne nel board, il Roi (return on investment) è stato del 4,8%, contro il 2,9% delle altre imprese, e il Roa (return on assets) si è attestato al 6,9% contro il 5%.
Lo studio ha poi analizzato il rischio di insolvenza in relazione alla presenza di dirigenti del gentil sesso. La probabilità di default quando ci sono donne nel management è più bassa, al 6% contro il 7,1%, e nel caso in cui la signora sia amministratore delegato addirittura si dimezza, al 3,8% contro il 6,7%.
Eppure, anche qui, come spiega Alessandra Romanò, direttore operativo Databank, divisione Cerved Group, “a una sensibilità crescente su questo tema non corrisponde un trend di crescita nella presenza“. Nelle aziende italiane, i CdA sono in grande maggioranza coniugati al maschile.
Sono l’11,9% le imprese italiane con almeno il 30% di donne in CdA, una percentuale relativamente stabile anche negli anni precedenti (non c’è, dunque, un tredn in crescita). La percentuale di donne fra gli amministratori è mediamente intorno al 9%, le aziende che ne hanno almeno una in CdA sono fra il 38% e il 39%. Dati, anche questi, relativamente stabili fra il 2007 e il 2010.
Al di là di queste indagini specifiche, basta uno sguardo ai CdA di Piazza Affari per avere un panorama chiaro: nei board delle 40 società a maggior capitalizzazione siedono 520 uomini e 23 donne. Depurando il dato dalle signore che appartengono a una famiglia azionista, il numero scende a 15, che significa il 2,88%. Nelle 74 aziende che compongono il segmento Star, dedicato alle medie imprese che spesso sono familiari, il totale dei consiglieri vede 697 uomini e 47 donne: di queste ultime, meno delle metà, ovvero 22, non appartengono alla famiglia azionista.