Giudice ordina dissequestro siti e-commerce di prodotti contraffatti

di Andrea Boscaro

29 Novembre 2011 09:30

Il Tribunale di Padova, per buona parte, ha annullato l'iniziale sequestro di 493 domini per la vendita di prodotti contraffatti col marchio Moncler.

Si è concluso un significativo episodio che, un po’ sotto silenzio, aveva visto fronteggiarsi dal giudice da un lato l’azienda di abbigliamento Moncler – vittima di un significativo numero di siti di commercio elettronico di prodotti contraffatti – e dall’altro alcune associazioni di provider che avevano contestato la decisione del Tribunale di Padova che inizialmente aveva sequestrato 493 domini. Il Gip della città veneta, però, ha riesaminato la situazione ed è tornato sulla sua decisione ordinando il dissequestro di quei siti che o non erano attivi o non contenevano alcuna violazione delle normative sulla protezione del marchio.

L’iniziale decisione del Tribunale  non solo rischiava di minare la libertà della Rete – termine pomposo, ma certamente non esagerato in questo caso – ma era in realtà un potenziale danno per la stessa marca.

Bene infatti aveva fatto Moncler a rivolgersi alla giustizia italiana – così come è possibile rivolgersi a Google per impedire l’acquisto di parole chiave da parte di contraffattori – per tutelarsi di fronte all’esplosione dei siti di contraffazione prevalentemente cinesi: il punto è che ad essere inclusi nell’oscuramento imposto dal Tribunale di Padova erano stati anche domini estranei ad ogni violazione delle leggi sul marchio, ma anzi o inattivi (curioso caso di censura preventiva, quindi) o tali da poter essere usati da utenti che intendevano raccontare loro esperienze legate al brand.

Impedire la registrazione di domini che richiamino una marca sarebbe infatti non solo un freno alle iniziative di social business di cui si sente oggi sempre più spesso parlare in altri Paesi , ma anche alle azioni di community promosse a sostegno stesso del consumo dei prodotti dell’azienda,

Quanto al primo caso, bbasta citare l’esperienza americana di Carrotmob.org nel quale i consumatori possono ritrovarsi per sollecitare le aziende ad un atteggiamento eticamente più consapevole.

Quanto al secondo caso, invece, pensiamo a come i siti creati dai consumatori per aiutarsi reciprocamente nell’uso dei prodotti della Dell siano stati una forma di crowdsourcing che ha infine portato il gigante dell’hardware ad avere un maggior polso del mercato e a immaginare finalmente un’iniziativa propria di customer care. Pensiamo infine alle community di social commerce che, in particolare per le aziende della moda, possono aggregare fan e costituire operazioni di viralità nient’affatto da censurare, ma anzi da monitorare e da ascoltare da parte delle aziende.