Seminare nel proprio orticello non aiuta a uscire dalla crisi; in altre parole, difendendo lo status – quo, non si progetta il futuro imprenditoriale in Italia e rende difficile attirare gli investimenti dall’estero. Il desolante scenario tracciato da due manager di rilievo, il polacco Leo Wencel, di Nestlè Italia, e Federico Golla, di Siemens Italia, è di monito a chi, con atti di tipica furberia nostrana, continua a spartirsi fasce di mercato saltando un tassello imprescindibile, quello di una reale competitività.
Colpa del legame (mortale) tra economia e “ragion di stato”? Sicuramente sì, ma altri annosi fattori frenerebbero lo sviluppo delle imprese, auspicabile attraverso un deciso rinnovamento “culturale” del paese e di un’intera classe dirigente. La crisi del mercato globale impone un’inversione di rotta che si traduce in nuove regole, riforme strutturali e, soprattutto, in un cambio di mentalità. Trincerarsi dietro un vecchio, barcamenante sistema di “amicizie”, “protezioni“, fino al dispendio di soldi pubblici ha impedito, di fatto, la capitalizzazione del futuro. Per non parlare delle difficoltà oggettive provocate da una forma quasi “atavica” d’immobilismo politico, che va a riflettersi sull’inerzia del sistema produttivo, nei consumi e nell’occupazione.
Indicativo il caso Ikea Italia, per due mega-store mai realizzati a Vecchiano (Toscana) e a La Loggia (Piemonte): due piani di sviluppo mancati a causa un lungo percorso a ostacoli, pur rispettando norme e istanze, senz’alcuna pretesa di scorciatoie preferenziali. Questo è ciò che hanno riferito ai maggiori quotidiani italiani l’ad Lars Petersson e l’expansion e investments manager, Ton Reijmers. Delusione e rincrescimento per “sette anni buttati”, tra lentezze burocratiche, pastoie e veti: in conclusione, ingenti investimenti e nuovi negozi da quindicimila metri quadrati, sono stati dirottati altrove (non in Italia), dopo aver atteso per sette anni il via libera dalle amministrazioni locali.
Come Ikea, anche i poli d’eccellenza e altre imprese, piccole o medio -grandi conoscono gli stessi problemi. Fornire agli imprenditori o a chi vuole investire in Italia, strumenti concreti e tempi certi, senza imbattersi in ostruzioni amministrative o, peggio, ideologiche – e se questo accadesse, avere la certezza che, in modo rapido, si possa ottenere una soluzione o, almeno, una valutazione in merito – parrebbe un ostacolo insormontabile per un paese che fino a qualche tempo fa, si fregiava di un quinto posto fra i più industrializzati al mondo, ma che una recente statistica ha indicato fra i più ostici, dove (insieme alla Grecia) è più difficile creare business.
Di scarsa lungimiranza imprenditoriale parla Guido Ghisolfi, presidente della Mossi & Ghisolfi, gruppo chimico multinazionale con sede in Piemonte (un fatturato intorno ai 4 miliardi di dollari e investimenti pari a 40 milioni circa in ricerca e sviluppo), in un convegno tenuto nel maggio scorso presso l’Istituto Bruno Leoni di Roma.
In Italia, molte aziende non hanno potuto o saputo investire in informatica, sicurezza, organizzazione, qualità reale. Condizione che ha favorito flessibilità e concorrenzialità, mentre oggi, nelle dinamiche del mercato mondiale, si palesa come vero e proprio handicap.
A questo proposito, le parole di Ghisolfi sono rivelatrici del gap italiano rispetto agli altri paesi industrializzati: “Nei confronti di questa richiesta, che spesso è considerata sterile burocrazia, monta la protesta e l’insofferenza che si concretizza nel chiedere meno carte e meno burocrazia. Ma il mondo va diversamente. L’esigenza di contabilità industriali trasparenti e controllate sistematicamente da organismi terzi, all’estero è regola usuale; la dimestichezza con i moderni sistemi di programmazione e di gestione, idem, la consuetudine a produrre le informazioni richieste in forma standard e in inglese, è una regola. Qualità, sicurezza, norma ambientale sono effettivamente rispettate da tutti e rappresentano, naturalmente, anche costi aziendali…”.