«La rivalutazione della fairness, della parola data, è il contributo che i manager possono dare al superamento della crisi che è culturale, poi sociale, politica ed economica». Parola di Mario Unnia, politologo, direttore di Prospecta, che a metà dello scorso marzo è stato invitato dalla Fondazione Istud agli incontri su “Leggere e comprendere la crisi” per parlare di “Etica d’impresa e azione manageriale”.
L’esperto si pone due interrogativi: «c’è una spiegazione etica della crisi? E c’è stato un vuoto di etica nel comportamento manageriale?». E risponde analizzando con ricchezza di riferimenti storici e culturali le vicende sociali, politiche ed economiche degli ultimi decenni. Fra le varie definizioni del concetto di crisi, spiega Unnia, «privilegio quello di crisi come discontinuità», ovvero come mutamento profondo del sistema di regolazione. Quest’ultimo può privilegiare l’eteroregolamentazione, per esempio la legge, ovvero un’autorità terza, oppure l’autoregolamentazione, cioè un accordo fra le parti. Secondo l’esperto, l’attuale crisi è stata una «discontinuità prima di tutto culturale, poi economica e sociale, che ha determinato una deregolazione del sistema economico, e non solo, e vede impegnati, per il momento con risultati parziali, sia gli stati (eteroregolazione) sia i protagonisti economici (autoregolazione)».
Il politologo ritiene che il precedente più significativo non sia il crack del ’29, ma la crisi di borsa dell’87-88. È l’epoca in cui nascono la net economy, che connette il mondo e impone cambiamenti alla business community internazionale, e la new economy, ovvero quella “filosofia” (informazione uguale denaro, informazione finanziaria uguale mercato) che porta, per esempio, alla finanziarizzazione spinta. In un primo momento, dopo che i vari Gordon Gekko (per i pochi che non lo ricordassero, è il famoso protagonista di Wall Street) hanno visto la propria stella tramontare, la situazione si è stabilizzata. Ma la globalizzazione ha nuovamente cambiato gli equilibri, il politologo ritiene che negli Usa si siano succedute tre presidenze, Bush padre-Clinton-Bush figlio, inadeguate, e di fatto si è ripetuto il cammino della new economy.
Un’economia del debito come quella americana può certamente funzionare e ha funzionato, ma si porta dietro un rischio devianza che è sfuggito di mano. La famosa “business ethics” anglosassone ha fallito. Con l’aggravante, rispetto agli ’80, che la crisi è globale.
E allora, come si deve comportare il manager? «Se mi è consentito formulare un auspicio – spiega Unnia – lo indirizzo verso l’autoregolazione dei soggetti piuttosto che verso l’eteroregolazione pubblica». Manager e imprenditori devono definire «l’etica dell’impresa in cui operano: ad esempio, un’impresa fortemente mercatista, che privilegia il capitale di rischio, oppure un’impresa che ha attenzione ad altri stekeholders. Sono etiche diverse e ugualmente valide». Poi ce ne sono altre, che si ispirano a comportamenti scorretti. «Il mio auspicio – conclude l’esperto – è che i manager siano pronti ad abbandonare l’impresa la cui etica dichiarata non risponda ai comportamenti reali richiesti al management». In conclusione, il manager deve essere «un mercenario affidabile» e «la sua etica è la fairness, stare ai patti, con il capitale, se si è scelto di dare priorità al capitale, con gli stakeholders se si sono scelti loro come soggetti prioritari».