Dopo l’India e il Dubai, adesso la questione tocca nientemeno che gli Stati Uniti d’America. Vi ricordate i problemi che il Blackberry ha avuto in alcuni paesi asiatici, perché gestendo i dati relativi alle comunicazioni dei propri clienti attraverso server che si trovano in Canada, o in Europa, non ne consentiva l’eventuale monitoraggio da parte delle varie autorità nazionali?
Ebbene, adesso la stessa identica preoccupazione è avanzata dalla Casa Bianca. L’amministrazione Obama sta pensando a una proposta di legge, da presentare alle Camere il prossimo anno, che obblighi non solo le compagnie di comunicazione ma anche i gestori di servizi Internet, come i social network, o gli operatori che gestiscono comunicazioni peer to peer, come Skype, a rendere controllabili le chiamate, i messaggi e tutte le comunicazini in generale. Controllabili da parte delle forze dell’ordine nell’ambito di un’indagine, è chiaro.
Come è facile immaginare, tale proposito sta scatenando un putiferio. Per l’ennesima volta nel giro dell’ultimo decennio l’America si trova alle prese con il delicato rapporto fra le esigenze di sicurezza e l’inviolabilità del diritto alla privacy. E ripropone un altro problema che non riguarda certo solo gli States ma l’intero pianeta, quello dell’altrettanto complessa relazione fra nuove tecnologie e libertà di espressione.
A questo proposito, con una provocazione che certo è stimolante, Kevin Bankston, legale della Electronic Frontier Foundation interpellato dal Washington Post, ricorda che nei mesi scorsi il portavoce del Dipartimento di Stato americano, P.J. Crowley, si era schierato contro i provvedimenti restrittivi dagli Emirati Arabi Uniti (che avevano bloccato una serie di servizi del Blackberry lamentando appunto che i messaggi erano criptati), dicendo che rappresentavano «un precedente pericoloso».
All’attuale proposta stanno lavorando il dipartimento della Giustizia, l’Fbi e la National Security Agency. È tutto ancora in fase di discussione, dunque i termini non sono ancora precisi, ma l’intento è quello di rendere possibile in modo veloce da parte delle autorità che stanno svolgendo indagini su reati penali il monitoraggio dei dati, in parole semplice l’intercettazione di tutti i messaggi e le comunicazioni.
In particolare i gestori di servizi di comunicazione che criptano i messaggi devono renderli eventualmente fruibili. I gestori di servizi che, come Rim, hanno i server fuori dagli Usa, devono installare uffici all’interno del paese dai quali sia possibile fare le intercettazioni. E gli sviluppatori e le aziende di software per gestiscono comunicazioni peer to peer a loro volta devono prevedere tecnologie che permettano i controlli.
In realtà, una legge che obbliga per esempio le classiche compagnie telefoniche o altre società di tlc a rendere tracciabili le comunicazioni esiste già, ed è il Communications Assistance to Law Enforcment Act (CALEA) del ’94. Il problema è che le internet company e le società hi-tech non ne sono toccate, anche in considerazione del fatto che negli anni ’90 difficilmente il legislatore poteva immaginare realtà come Skype o Facebook.
Comunque, da quando il New York Times ieri ne ha parlato, il dibattito si è infuocato. Vogliamo solo “mantenere la capacità di lavorare al fine di tutelare la sicurezza personale e nazionale” ha spiegato il legale dell’Fbi Valerie Caproni.
Per Banksotn, invece, la proposta è «contro la privacy, contro la sicurezza e contro l’innovazione». C’è poi chi pone problemi di natura tecnologica, dicendo che se le società dovessero aprire dei buchi nei sistemi per consentire le intercettazioni se ne potrebbero avvantaggiare gli hacker, ed economica (ma qui l’amministrazione andrebbe incontro alle eventuali esigenze finanziarie delle aziende costrette ad operare cambiamenti alle tecnologie).