Dopo Mirafiori: la linea Marcegaglia

di Barbara Weisz

21 Gennaio 2011 13:30

La presidente di Confindustria ammette: bisogna riformare l'associazione. Più attenzione al territorio. Contratti: non vogliamo il Far West

Una Confindustria «più snella ed efficiente», che rafforzi «il ruolo delle unioni territoriali», da costruire «creando dal basso best practise, esperienze modello da emulare». L’onda lunga del dopo Mirafiori arriva in Viale Astronomia, e il presidente Emma Marcegaglia non si sottrae al dibattito sulle nuove relazioni industriali ma anzi detta la sua agenda, punto per punto.

«Non ho remore a dire che considero la vicenda Fiat uno stimolo al cambiamento ma le idee ce le avevano già», spiega la presidente di Confindustria in un’intervista al Corriere della Sera. Marcegaglia rivendica la centralità del ruolo dell’associazione nella tutela degli interessi dell’impresa, ma ammette: «è l’ora di riformare Confindustria». E uno per uno affronta tutti i temi prepotentemente rilanciati dalle vicende delle ultime settimane ma anche, più in generale, dal dopo-crisi.

Innanzitutto, i contratti. Il problema è superare quello che viene definito il “vecchio sistema fordista di fare rappresentanza”, il “format unico per tutti”. Le aziende, a seconda delle loro dimensioni e specificità, hanno esigenze diverse che i contratti devono incamerare. Quindi si’ ai contratti aziendali, ma “non è affatto vero che scomparirà il contratto nazionale”. “L’83% delle pmi lo vorrà, ma in parallelo noi abbiamo l’esigenza di cucire una contrattazione che calzi perfettamente all’organizzazione del lavoro, ai regimi di orario e alle specificità di mercato” delle grandi aziende. Dunque, una sorta di doppia velocità, in un percorso che “non è certo indirizzato a radere al suolo il sindacato”. “Non amo il far west” taglia corto la leader degli industriali.

Quindi la rappresentanza. Marcegaglia ci tiene a fornire i numeri: a fronte di “casi rarissimi” di imprese uscite da Viale Astronomia, dal dicembre 2007 “le imprese associate sono aumentate del 10,9% e se lo calcoliamo in base ai dipendenti l’universo che si riconosce in noi è cresciuto del 13%. Dunque, “la rappresentanza degli industriali non si sta disgregando, tutt’altro”. Ma si impone un ripensamento delle strategie, bisogna “decidere che mestiere vogliamo fare in futuro”. Le associazioni non devono servire “per costruire veti”, ma “per modernizzare il paese”.

E per farlo, Marcegaglia vuole partire dal basso: “già siamo federalisti, vogliamo diventare iperfederalisti”. Cita una serie di iniziative partite dal territorio: a Treviso un servizio di consulenza per facilitare il rapporto delle imprese con le banche, a Bergamo un piano di rilancio del tessile della Val Seriana, a Varese un fondo per la capitalizzazione. In generale, “ai nostri associati dobbiamo dare una consulenza integrata che non sia solo sindacale, solo finanziaria o solo per l’export”, anche in considerazione del fatto che “l’85% delle aziende iscritte è sotto i 50 dipendenti”.

Una maggior attenzione al territorio che passa anche attraverso il rapporto con nuove realtà, come le aziende cinesi. “Ai miei di Prato ho chiesto di associarne almeno 10. Perché se entrano da noi vuol dire che escono dal sommerso”. Il tema è delicato, e Marcegaglia propone una sua ricetta: “so che spesso i cinesi sono in diretta e sleale concorrenza con le nostre piccole imprese, ma so anche che copiare un’azienda è facile, copiare una filiera è impossibile”.
Infine, cura dimagrante all’insegna della sobrietà.

“Da quando sono presidente ho ridotto i costi del centro del 18,7%, ma non ho problemi a dire che siamo ancora pletorici”. C’è anche un impegno a “organizzare meno passerelle, meno convegni costosi”, a fare missioni all’estero più orientate alla concretezza e meno concentrate sull’immagine.