Tra i settori in cui l’Italia risulta in ritardo rispetto agli altri Paesi europei rientra anche la diffusione del telelavoro, che fa registrare solo 800 mila telelavoratori nel 2008.
Ancora pochi, nonostante la crescita nel tempo ci sia: nel 207 i lavoratori in “remote working” erano 700 mila, ovvero il 3,2% del numero totale degli occupati.
Ad ogni modo, la quota italiana resta nettamente inferiore se rapportata al 27,6% – oltre uno su quattro – registrato in Finlandia, Olanda e Svezia e al 17,8% – uno su cinque – di Regno Unito, Germania e Danimarca.
Questo nonostante gli accordi sul telelavoro raggiunti con l’Unione Europea nel 2002 e tra Confindustria e sindacati nel 2004, volti appunto a favorire la diffusione di questa modalità di lavoro.
Nel periodo 2007-2011, tuttavia, complice anche la necessità di ottimizzare i costi, in Italia si stima un incremento dei lavoratori “fuori sede aziendale” del 7,1%.
A giustificare questa situazione, per alcuni – tra cui molti sindacati – vi sarebbe la presenza in Italia di una struttura produttiva basata prevalentemente su Pmi – ancora incentrate sul controllo fisico del dipendente – oltre alle resistenze culturali e al gap tecnologico.
Ad usufruire di telelavoratori sono, infatti, principalmente società operanti nel settore delle telecomunicazioni (Call Center & Co.).
Neanche l’evidente risparmio economico – costi logistici e hardware, risparmi di tempo per gli spostamenti, ecc. – e le esperienze positive di chi ha intrapreso questa strada sono in grado di battere i retaggi culturali esistenti in Italia.