Web Tax e fatturazione della pubblicità  online

di Filippo Vendrame

Pubblicato 14 Gennaio 2014
Aggiornato 12 Febbraio 2018 20:54

La versione definitiva della famigerata Web Tax inclusa nella Legge di Stabilità  non è propriamente una tassa in senso stretto ma un provvedimento atto a bloccare la “scappatoia” contabile di molti player stranieri della New Economy come Google e Facebook che finora potevano evitare di pagare un tributo al Fusco italiano.

Il provvedimento prevede l’obbligo di acquistare servizi di pubblicità , link sponsorizzati online e spazi pubblicitari solo da soggetti titolari di partita IVA italiana. Le multinazionali sfruttavano invece finora una debolezza delle norme europee, pagando le tasse solo sugli introiti derivanti dalle attività  operate sul porprio suolo nazionale e non quello generato da attività  operate per loro conto da società  controllate con sede legale in paesi terzi. La Web Tax italiana si prefigge proprio di rendere tracciabili tali introiti quando sono frutto di operazioni italiane, permettendo così al Fisco italiano di non venire scavalcato.
Come? Obbligando gli inserzionisti a comprare pubblicità  digitale e servizi connessi soltanto da Partite IVA italiane. Finora, invece, si poteva creare una società  in Irlanda che detiene la proprietà  intellettuale, affidando ad una seconda società  irlandese la conduzione commerciale dei servizi legati al marchio e la relativa fatturazione degli introiti (compensando con le royalties della prima società  gli attivi e i passivi). In questo modo, la prima società  paga le tasse, ma siccome l’Irlanda ha rapporti vantaggiosi con realtà  come le isole Cayman, la maggior parte degli imponibili vengono fatti sparire. Per molti la WebTax rischia comunque di allontanare le aziende straniere penalizzando ancora, semmai ce ne fosse bisogno, il mercato italiano. Il vero nodo è trovare un giusto equilibrio tra nuove forme dell’economia con le legislazioni dei diversi Paesi.