Aziende familiari, quando la holding conviene

di Barbara Weisz

20 Gennaio 2014 12:10

Aziende familiari, spesso PMI, con una holding controllante: ecco quando si ottengono i risultati migliori.

Mettere una holding a controllare l’azienda di famiglia conviene in termini di redditività e anche di gestione finanziaria, anche se il fatturato cresce più lentamente che nelle altre imprese: lo confermano numerosi studi svolti negli ultimi anni, come “Le holding dei gruppi italiani a controllo familiare“, degli economisti Guido Corbetta, Alessandro Zattoni e Fabio Quarato dell’Università Bocconi in collaborazione con Ernst & Young. La ricerca si concentra su una realtà peculiare dell’economia italiana: le aziende familiari, che sono quasi sempre PMI. Si tratta di imprese di proprietà integrale – o in larghissima parte – dell’imprenditore e della sua famiglia, in cui in genere alcune tematiche (passaggio generazionale, gestione finanziaria dell’impresa…) sono fattori critici.

Imprese familiari controllate da holding

Il lavoro, presentato nel 2012 e ancora di grande attualità, analizza le aziende familiari italiane sopra 50 milioni di fatturato, utilizzando il database dell’Osservatorio AUB. Il numero di imprese familiari controllate da una holding registrato al 2010 è pari al 38%. Ne trae vantaggio la redditività: il Roe, (Return on equity – ritorno sull’investimento azionario) di queste aziende è del 5,4% contro una media pari al 4,5% nelle altre tipologie di impresa. Sono migliori anche gli indicatori relativi alla capacità di rimborso del debito: il rapporto Pfn/Ebitda, fra posizione finanziaria netta e margine operativo lordo, è di 6,6 nelle imprese familiari controllate da una holding contro il 5,6 delle altre aziende. Diverso il discorso sui ricavi, che crescono più lentamente: fatto 100 il fatturato del 2006, nel 2009 le controllate erano a quota 103, mentre le altre arrivavano a 106.

La catena di controllo

Ma non tutte le holding sono uguali, si potrebbe dire semplificando estremamente il concetto: esistono strutture più o meno complesse, che possono essere dei semplici “contenitori” di partecipazioni piuttosto che avere compiti finanziari di più ampio respiro. E può essere più o meno lunga la “catena di controllo“. Nella stragrande maggioranza dei casi, il 74,3% delle aziende familiari, la catena di controllo prevede un solo livello, cioè controlla direttamente la capogruppo industriale, e secondo le evidenze dello studio questo in genere assicura i risultati migliori. Ci sono poi il 22,5% delle aziende con una catena a due livelli, e un marginale 3,2% con strutture a tre o più livelli.

A funzionare meglio, secondo l’analisi, è la situazione in cui la catena di controllo è corta e la holding è patrimoniale, scelta operata nell’82,8% dei casi: si tratta quindi di una società che si limita a detenere, ed eventualmente a vendere e comprare, le partecipazioni, e in genere non ha dipendenti. Si evitano così aggravi di costo e duplicazione di funzioni spesso già esistenti nella controllata. Nel 17,2% delle aziende familiari c’è invece una holding finanziaria, che ha una struttura più complessa, e può avere compiti di investimento, indirizzo finanziario, finanziamento. In questo caso, sotto la finanziaria può esserci la holding patrimoniale, e si allunga quindi la catena di controllo.

La holding

«La funzione principale delle holding rimane quella di controllo», afferma Alessandro Zattoni, il quale fornisce altri elementi: «Non servono a favorire l’ingresso in nuovi business, dato che nel 57% dei casi i gruppi sono addirittura monobusiness. Sono proprio le holding a vedere più spesso un familiare nel ruolo di vertice, in circa i tre quarti dei casi. Questo leader è spesso anche il leader della società caposettore. Il controllo si esplica, soprattutto, attraverso la presenza nel consiglio di amministrazione. Basti pensare che nel 60% dei casi almeno un terzo del CdA della caposettore è rappresentato da consiglieri della holding e nel 39% dei casi lo è più di metà del CdA».

La forma prevalente della holding di vertice è quella della S.p.a., società per azioni, 41,9%, seguita da S.r.l., società a responsabilità limitata, 34,2% e società di diritto estero, 13,2%. Molto più rare le società di persone, 5,9%, e quelle in accomandita per azioni, 4,7%.

Infine si può segnalare che un approfondimento sui 49 gruppi familiari di maggiori dimensioni (qui non siamo più nell’ambito delle PMI, si parla di aziende con fatturato sopra il miliardo di euro) rileva come anche queste società stiano via via semplificando la catena di controllo e riducendo le attività delle holding: dal 2006 al 2010 il numero medio di dipendenti delle holding è passato da 114 a 48 e i ricavi da 40,9 a 15,8 milioni di euro.

«Non necessariamente la struttura complessa è sinonimo di prestazioni migliori» spiega Paolo Zocchi, partner Ernst & Young e Family Business Center of Excellence Leader per Italia, Spagna e Portogallo, e questo vale «in particolare per i gruppi di medie dimensioni. La ricerca mostra i come in molti casi strutture di gruppi semplici possano generare performance (sia in termini di crescita dei ricavi che di redditività) più elevate forse perché più flessibili e reattive e quindi più veloci nell’adeguarsi alle mutevoli condizioni di mercato. Solo nella misurazione delle performance legate all’indebitamento i gruppi articolati e/o complessi sono in grado di raggiungere risultati superiori alla media sfruttando al meglio tutte le sinergie della propria organizzazione». Per approfondimenti, consulta le slide dello studio.