Previdenza integrativa, fermi i rendimenti

di Barbara Weisz

Pubblicato 4 Settembre 2019
Aggiornato 12 Gennaio 2022 11:07

Previdenza complementare in crescita per patrimonio ma indietro nei rendimenti, bene fondazioni bancarie e PIP gestioni separate: criteri ESG, investimenti imprese e ruolo del TFR nel report Itinerari Previdenziali.

Il mercato italiano della previdenza complementare inizia ad avere dimensioni interessanti con una buona capitalizzazione, ma sul fronte dei rendimenti, il 2018 è stato un anno negativo quasi per tutti, a fronte di un +1,95% di rivalutazione del TFR: è quanto emerge dal sesto report annuale di Itinerari Previdenziali Investitori istituzionali italiani: iscritti risorse e gestori per l’anno 2018, che ha analizzato Fondi Pensione Negoziali e Preesistenti, Casse di Previdenza, Fondazioni di origine Bancaria, forme di Assistenza Sanitaria Integrativa e Compagnie di Assicurazione.

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Patrimonio

Il patrimonio dei fondi italiani è pari a 167 miliardi ed il mercato si classifica al 15esimo posto Ocse, al 18esimo posto mondiale, guidata dagli USA (25mila mld di euro).  Pur negli anni caratterizzati dalla crisi finanziaria, il patrimonio è costantemente cresciuto negli ultimi 12 anni, passando dai 57 miliardi dl 2007 agli attuali 167 mld. Sommando anche casse professionali, fondazioni bancarie, e riserve compagnie assicurazione, sale a 860 miliardi.

Rendimenti

I rendimenti 2018 hanno però registrato contrazioni rispetto agli anni precedenti, e con poche eccezioni chiudono in negativo.

Positive solo le performance delle fondazioni bancarie (+2,7%), che sono anche le uniche a superare la rivalutazione del TFR, che nel 2018 è stata pari +1,95%.

 

In territorio positivo anche i PIPgestioni separate (+1,7%), mentre tutti gli altri comparti hanno un segno negativo. Le performance peggiori sono quelle dei PIP – unit linked (-6,5%) e dei fondi aperti (-4,5%).

Considerando un periodo di maggior ampiezza, 5 o 10 anni, i fondi battono però il TFR.

Investimenti

Sul fronte delle scelte di investimento, fra gli altri emergono due trend: il crescente interesse verso le tematiche ESG e l’incertezza sul fronte investimenti in economia reale.

Un’indagine su 55 grandi investitori istituzionali italiani, evidenzia come poco più della metà applichino i criteri ESG (Ambiente, Sociale, Government). Sono più alte le percentuali di fondi negoziali (56%) e casse di previdenza (62%), mentre sono parecchio indietro sul fronte degli investimenti nella sostenibilità le fondazioni bancarie e i fondi preesistenti.

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L’interesse verso la responsabilità sociale, in ogni caso, «è cresciuto e si sta alto ormai da diverso tempo a livello internazionale» sottolinea Alberto Brambilla, presidente Centro studi e ricerche di Itinerari previdenziali, che sottolinea l’importanza della “Business rountable”, documento sottoscritto da 200 supermanager della Corporate America che si impegnano a governane le rispettive compagnie nell’interesse di tutti gli stakeholder (lavoratori, fornitori, clienti, comunità), non più solo degli azionisti.

Si tratta, secondo Brambilla, del «modello ideale a cui tendere, sopratutto alla luce della triplice sfida che ci attende nei prossimi anni: conservazione dell’ambiente, gestione dell’invecchiamento della popolazione, ricerca di una migliore convivenza sociale». Dunque, un’economia che oltre a essere basata sul profitto, «la molla e lo strumento per qualsiasi forma di redistribuzione sociale», si concentri anche sulla «responsabilità sociale,e che sarà tanto più praticata quanto più la finanza e i suoi interlocutori saranno attenti ai problemi di sostenibilità ambientale e sociale delle proprie attività e politiche di welfare».

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Infine, gli investimenti in economia reale, ancora modesti da parte del settore, pur a fronte delle novità anche normative introdotte negli ultimi anni (PIR, Eltif). I maggiori investitori in economia reale sono le fondazioni di origine bancaria, che investono il 48% del patrimonio destinato alle prestazioni, seguono le casse privatizzate, con il 16%, mentre i fondi negoziali e preesistenti sono fermi a percentuali intorno al 3%.

«A impressionare non positivamente – osserva Brambilla – è sicuramente l’esiguità degli investimenti dei fondi di natura contrattuale, in gran parte alimentati dal TFR, circolante interno alle aziende e che, quindi, è e dovrebbe essere la prima e principale forma di sostegno all’economia reale.

Si potrebbe sicuramente fare di più tenendo però bene a mente che, se anche l’Italia avesse un minimo di politica industriale, con l’apporto di questi investitori si potrebbero favorire le realtà produttive del Paese, migliorando occupazione e sviluppo, e soprattutto evitando che alcuni nostri “gioielli” possano finire in mano a capitale esteri, come oggi spesso accade per somme risibili».

La soluzione: «eliminare le pesanti tassazioni che gravano su questi investitori, trattati alla stregua di investitori speculativi».