Oblio Internet, il tribunale frena

di Francesca Vinciarelli

15 Dicembre 2015 11:16

Prima sentenza sul diritto all'oblio Internet boccia il ricorso di un utente: ecco quando Google non può essere obbligato a rimuovere i risultati dal motore di ricerca.

Google oblio
È arrivato lo scorso 3 dicembre il primo pronunciamento in tema di
diritto all’oblio su Internetpassato per la giustizia ordinaria: la prima sezione civile del Tribunale di Roma con sentenza n. 23771/2015 (RG n. 79860/2014 Repert. n. 23353/2015 del 03/12/2015) ha rigettato il ricorso con il quale un avvocato chiedeva che Google rimuovesse 14 link che risultavano da una ricerca effettuata sul Web con il proprio nome.

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Ricorso

La richiesta del professionista faceva seguito alla pronuncia della Corte di Giustizia UE del 13 maggio 2014, con la quale veniva riconosciuto il diritto di oblio su Internet, ovvero di ottenere da motori di ricerca come Google la rimozione su richiesta dei risultati di ricerca ritenuti “irrilevanti” o troppo datati, ad eccezione delle informazioni ritenute di pubblico interesse e pertanto rientranti nel diritto della community di conoscere determinati fatti, seppur lontani nel tempo.

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Nel ricorso si chiedeva a Google di rimuovere dai risultati della ricerca web, ottenuti digitando il nome dell’utente in questione, tutti quegli articoli di cronaca relativi a una vicenda giudiziaria incentrata su truffe e guadagni illeciti nella quale era rimasto coinvolto tra il 2012 e il 2013, insieme a esponenti del clero e soggetti legati alla banda della Magliana. Il motivo era che nei confronti del professionista non era stata emessa alcuna condanna, quindi si ritenevano questi articoli potenzialmente lesivi in termini di reputazione. Google aveva respinto la richiesta del professionista, il quale si è quindi rivolto all’autorità giudiziaria.

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Sentenza

Il Tribunale di Roma ha però respinto la richiesta considerando il ruolo pubblico del ricorrente, essendo egli iscritto in un Albo professionale, ritenendo inoltre che le notizie ed i fatti indicizzati fossero ancora attuali e che non si trattasse di link lesivi della propria reputazione e del proprio diritto alla privacy. La sentenza parte dunque dai due principi sanciti dalla Corte di Giustizia e del Garante per la protezione dei dati personali, confutandoli per motivare la bocciatura della richiesta di de-indicizzazione: 

  • attualità: nel caso in oggetto non si possono considerare i fatti “lontani tempo” (2013).
    “Le notizie individuate tramite il motore di ricerca risultano, nella specie, piuttosto recenti; invero, il trascorrere del tempo, ai fini della configurazione del diritto all’oblio, si configura quale elemento costitutivo, come risultante anche dalla condivisibile sentenza n. 5525/2012 della Suprema Corte, nella quale questo viene configurato quale diritto a che non vengano ulteriormente divulgate notizie che per il trascorrere del tempo risultino oramai dimenticate o ignote alla generalità dei consociati, presupposto nella specie assolutamente insussistente, risalendo i fatti al non lontano 2013 (o al più al luglio 2012, secondo due dei risultati della ricerca) ed essendo pertanto gli stessi ancora attuali”.
  • pubblico interesse: attribuendo il “ruolo pubblico” anche a uomini d’affari e professionisti in albi.
    “Tale ruolo pubblico non è attribuibile al solo politico (cfr. linee guida del 26.11.20014) ma anche agli alti funzionari pubblici ed agli uomini d’affari (oltre che agli iscritti in albi professionali) […]“La medesima appare di sicuro interesse pubblico, riguardando un’importante indagine giudiziaria che ha visto coinvolte numerose persone, seppure in ambito locale-romano, verosimilmente non ancora conclusa, stante la mancata produzione da parte dell’istante di documentazione in tal senso (archiviazioni, sentenze favorevoli…). I dati personali riportati risultano quindi trattati nel pieno rispetto del principio di essenzialità dell’informazione”.

Inoltre, il tribunale capitolino ha ricordato come il diritto all’oblio non possa sfociare in una richiesta di tutela inibitoria per eventuale diffamazione, nel qual caso la strada corretta è quella di rivolgersi al proprietario e/o gestore del sito web specifico su cui la notizia ritenuta diffamante è stata pubblicata.

“Né può in questa sede il ricorrente dolersi della falsità delle notizie riportate dai siti visualizzabili per effetto della ricerca a suo nome, non essendo configurabile alcuna responsabilità al riguardo da parte del gestore del motore di ricerca (nella specie Google), il quale opera unicamente quale caching provider ex art. 15 d.lgs. n. 70/2003: in tale prospettiva pertanto il medesimo avrebbe dovuto agire a tutela della propria reputazione e riservatezza direttamente nei confronti dei gestori dei siti terzi sui quali è avvenuta la pubblicazione del singolo articolo di cronaca, qualora la predetta notizia non sia stata riportata fedelmente, ovvero non sia stata rettificata, integrata od aggiornata coi successivi risvolti dell’indagine, magari favorevoli all’odierno istante (il quale peraltro deduce di non aver riportato condanne e produce certificato negativo del casellario giudiziale)”.