Sconcerto, rabbia, delusione per gli ambientalisti ma anche per molti delegati internazionali riuniti a Durban, in Sudafrica, alla 17ma conferenza sul clima: mentre il mondo attende l’accordo del Kyoto 2 (in vigore dal 2013 al 2017), il Canada pare abbia tutte le intenzioni di ritirarsi dall’originale. Il ministro dell’ambiente canadese, Peter Kent è stato lapidario: “Il protocollo per noi, è il passato”.
Intanto si tirano le somme e non sono incoraggianti: il trattato globale partirà nel 2020, l’Ue resta in una posizione d’isolamento contro i cambiamenti climatici; Canada, Russia, Giappone non seguiranno gli orientamenti del nuovo trattato, sempre assenti Usa, Cina e India. Si pensa a un Fondo Verde – 100 miliardi di dollari l’anno, entro il 2020 – che aiuti i Paesi più poveri a ridurre l’immissione di CO2 nell’atmosfera, però non si sa come finanziarlo; un particolare non da poco per i membri del G8 alle prese con una crisi economica senza precedenti.
Nel caso del Canada in particolare, la decisione peserà come un macigno, considerato che l’intero nord America – insieme ai due stati d’Oriente, Cina e India – non porrà alcun freno alle emissioni fino al 2020, con conseguenze facilmente immaginabili negli equilibri climatici e degli interi ecosistemi.
Veniamo ai fatti: da più parti si sottolinea la slealtà del governo canadese a non mantenere gli impegni in precedenza assunti e, con una mossa a sorpresa, eludere i circa 14 miliardi di sanzione. Per coprire il fallimento sulla riduzione delle emissioni, il ministro Kent ha trovato il suo escamotage, accusare il governo liberale dell’ex premier Jean Chrétien d’aver sottoscritto il Protocollo di Kyoto nel ’97, senza però mettere in atto i piani necessari affinché si ottenessero i risultati sperati. A questo punto, sul Canada si è abbattuto un vero e proprio fuoco incrociato: la reazione cinese, pur essendo un paese che non si è particolarmente distinto fra quelli più virtuosi, non ha risparmiato critiche durissime, accusando il governo canadese non solo di destabilizzare il contenuto integrale sugli accordi di Kyoto ma di far saltare l’intera conferenza.
Il Canada aveva l’obbligo d’informare l’Onu della sua decisione entro la fine dell’anno ed evitare sanzioni: dunque, nessun margine di trattativa o dibattito interno al fine di salvare il salvabile, ma un esplicito rigetto, motivato dalla Camera dei Comuni di Ottawa come “un diritto legale al ritiro ufficiale dal Protocollo”, senza considerare che, tale scelta, prevarrà sui lavori di qualità legati al settore energetico, sui mancati investimenti, sulla stessa immagine del Canada a livello internazionale.
Le ragioni del “no” a Kyoto sono rivelate in un rapporto, “Who’s Holding Us Back” pubblicato il 23 novembre scorso dalle associazioni ambientaliste del Quebec. Nel documento si parla di collusione tra il governo e le società multinazionali operanti nello sfruttamento delle sabbie bituminose, secondo cui, la Shell e l’Association canadienne des producteurs pétroliers concorrono all’inazione climatica sul territorio e incoraggiano le autorità, a rigettare i negoziati internazionali dell’Unfccc.
Tra l’altro, il dossier evidenzia come: “L’intensificazione dello sfruttamento delle sabbie bituminose, la crescita più rapida dei gas serra in Canada, imprigionerà il Paese in un’economia che produrrà grandi quantità di carbonio durante numerosi decenni.”
Dal canto suo, il ministro Kent sottolinea che continuare sulla linea tracciata a Kyoto vorrebbe dire “eliminare gran parte dei veicoli a motore, fermare l’intero settore agricolo o diminuire drasticamente il riscaldamento in tutti gli edifici del Canada e, comunque, mettere in pericolo migliaia di posti di lavoro”.