Negli ultimi tempi il mercato del lavoro ha subito dei cambiamenti epocali, attribuibili ad una molteplicità di fattori concomitanti.
L’avvento di Internet e dell’informatica da un lato, la globalizzazione dei mercati dall’altro, hanno favorito una riorganizzazione interna delle aziende che ha determinato anche una progressiva difficoltà nel reclutare nuove figure professionali.
C’è stato un lungo periodo, nel recente passato, in cui le imprese hanno erroneamente sottovalutato l’aspetto delle risorse umane come elemento fondamentale nel determinare la competitività di un’azienda.
Questa tendenza ha generato, inoltre, anche una perdita progressiva di importanza relativamente alle potenzialità individuali dei dipendenti, al valore umano e professionale e alle attitudini di ogni singolo individuo. In questi ultimi tempi, invece, la situazione sembra essersi capovolta: sono le aziende a rincorrere i talenti e non il contrario, anche perché essi costituiscono il valore aggiunto di un’impresa alquanto difficile ormai da reperire nel mercato del lavoro e, nello stesso tempo, proporzionalmente fondamentale per “fare la differenza”.
Per arginare questo fenomeno, i dirigenti cercano di attuare nuove politiche di branding, orientate alla fidelizzazione del dipendente basata sulle relazioni durature e sulla comunicazione di valori piuttosto che sulla mera retribuzione.
Ecco quindi che di fronte alla dilagante “fuga di cervelli” che può risultare molto spesso deleteria per i budget aziendali si sta sempre più affermando, anche in Italia, come del resto già da tempo negli Stati Uniti, la cosiddetta politica dell’Employer Branding, che racchiude in sé una molteplicità di implicazioni e significati.
Sostanzialmente con tale termine si usa indicare l’insieme delle attività sostenute da un’azienda per rafforzare la propria immagine, sia dal punto di vista interno e quindi nel mantenimento dei dipendenti, sia dal punto di vista esterno, ovvero nel reclutamento di nuove risorse.
Per quanto riguarda il primo aspetto, sul posto di lavoro si punta a ridurre il minimo gli attriti fra colleghi valorizzando il senso di appartenenza all’azienda, mentre nel secondo caso lo sforzo è orientato a presentare l’impresa come un brand appetibile al quale i potenziali lavoratori possano essere interessati.
L’applicazione della filosofia dell’Employer Branding si traduce dunque più che in un aspetti tangibili, come ad esempio benefit e retribuzioni, nella trasmissione di valori immateriali, come lo stile manageriale, la cultura dei valori aziendali o le prospettive di carriera. Diversi sono gli strumenti utilizzati dai vertici aziendali per la realizzazione pratica di questi obiettivi: dalle giornate di incontro con i neolaureati alla manutenzione ottimale del sito internet, da un’adeguata politica retributiva ad una reale possibilità di crescita delle risorse.
Per maggiori approfondimenti dell’argomento cosituisce un valido supporto il volume Trattenere i talenti in azienda, edito nel 2006 da Etas Lab.