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Apprendistato nelle Pmi italiane

di Filippo Davide Martucci

Pubblicato 22 Gennaio 2012
Aggiornato 4 Aprile 2014 11:20

Apprendistato o sfruttamento? Complice la selva di leggi e contratti, in Italia manca un vero modello formativo che faccia bene ad aziende quanto a lavoratori.

La crisi ha coinvolto non solo distribuzione e vendita ma anche tutte le fasi della produzione di beni e servizi: gli alti costi di manodopera hanno causato la riduzione di posti di lavoro e prodotto un rallentamento della produttività. L’apprendistato mirerebbe a risolvere il problema portando vantaggi per tutti: più speranza di lavoro per i giovani grazie alla formazione e più personale qualificato a basso costo per le Pmi.

Tuttavia, il contratto di apprendistato da noi non prende piede, al contrario di altri paesi europei: in Germania l’80% degli apprendisti ha meno di 20 anni e in Francia il 63% non supera i 18 anni, in Italia il 97% degli apprendisti ha un’età superiore ai 18 anni e di questi il 30% ne ha più di 25.

In Italia non riesce però a farsi largo, anche per la presenza di qualcosa come 20 leggi regionali e 456 contratti collettivi nazionali differenti. Un’opportunità che si è trasformata in una lancia spuntata, utilizzata dalle imprese non per qualificare la manodopera inesperta, ma per aggirare gli oneri contributivi e risparmiare sulle tasse.

Da noi, inoltre, un terzo dei contratti non si basa sul modello dell’apprendistato professionalizzante (ponte tra Scuola e Lavoro) che riconosce tre tipologie diverse di apprendistato – apprendistato per il diritto/dovere di formazione, apprendistato professionalizzante e apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione – ma si rifà alla Legge Treu del 1997. Solo il 26,3% dei contratti di apprendistato preve un vero e proprio percorso di formazione, rendendo così inutile l’esistenza di questo tipo di contratti, e svilendo la volontà dei giovani di sottoscriverli.

La confusione, secondo Lisa Rustico, direttore scientifico di Fareapprendistato, deriva anche dal fatto che «tutti i contratti disciplinano l’apprendistato professionalizzante che però non è il solo esistente. Esistono infatti anche l’apprendistato per i minorenni e quello di alta formazione che i contratti collettivi non hanno recepito».

Nel nostro Paese norme e contratti si sovrappongono creando confusione riflettendosi nel calo degli apprendisti (da 645.986 del 2008 a 591.800 del 2009), nell’incongruenza tra l’età media degli apprendisti italiani rispetto a quelli europei e nel loro livello di istruzione: 52,4% licenza media, 8,5% qualifica, 33,6% diploma e 5,5% laurea.

Le responsabilità son quindi equamente distribuite tra Stato – che non riesce ancora a fornire una voce univoca – e le imprese, che mettono il percorso di formazione in secondo piano, considerando gli apprendisti come veri e propri operai.

Per questi motivi il ministro del Welfare Maurizio Sacconi sostiene la necessità di svolgere formazione interna e ha messo a punto un Testo Unico sull’Apprendistato che ne attui la riforma, di concerto con le organizzazioni sindacali. Lo scorso ottobre sono state intanto diffuse le linee guida e le strategie di contrasto alla disoccupazione giovanile.

Non ci resta che attendere la pubblicazione definitiva del DL, nella speranza che si possa definitivamente diradare la coltre di norme e contratti e contare su un sistema di norme orientato alla formazione e all’inserimento nel mondo del lavoro, ma aiutando anche le aziende a districarsi tra norme e competenze statali e regionali spesso sovrapposte, rendendone difficile l’interpretazione e l’applicazione.