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Il patto di non concorrenza tra impresa e lavoratore

di Anna Fabi

4 Settembre 2023 03:25

Oltre la correttezza professionale: analisi del patto di non concorrenza tra impresa e lavoratore subordinato e parasubordinato.

L’obbligo di fedeltà sancito dall’articolo 2105 c.c. cessa al termine del rapporto di lavoro. Tuttavia, l’articolo 2125 c.c. ammette la possibilità di stipulare accordi volti a limitare l’attività dell’ex dipendente. In particolare, la norma dispone che un eventuale patto di questo genere sia nullo:

Se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, tempo e di luogo. La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi.

Patto lavoratore-azienda

Il patto di non concorrenza è dunque un accordo distinto dal rapporto di lavoro, e autonomo rispetto all’obbligo di fedeltà. Riguarda esclusivamente il rapporto di lavoro subordinato e parasubordinato, pertanto non può applicarsi a ipotesi diverse (es.: rapporto di agenzia, dato che l’agente è un lavoratore autonomo; in tali ipotesi risulta essere applicabile l’art. 1751bis del c.c.).

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L’accordo può essere concluso tra le parti in qualsiasi momento, a condizione che sia formalmente separato e distinto dal contratto di lavoro (Cass. n. 1846/1975), ovvero durante lo svolgimento del rapporto lavorativo (Cass. S.U. n. 630/1965). La forma scritta. come sottolineato, è richiesta a pena di nullità e deve riguardare tutti gli elementi indicati dall’articolo 2125 c.c.

Attività sleali e/o concorrenziali

Il patto non riguarda le sole forme di concorrenza sleale – le quali, a norma dell’articolo 2598 c.c., costituiscono comunque un illecito di natura extracontrattuale – ma qualunque attività potenzialmente concorrenziale anche se di per sé lecita.

Il patto può avere un contenuto ampio e comprendere qualunque tipo di attività autonoma o subordinata che possa nuocere all’azienda. In ogni caso, l’accordo non può precludere al lavoratore qualsiasi opportunità professionale. In tal senso, la giurisprudenziale prevalente afferma che i limiti posti all’attività lavorativa devono essere valutati in relazione all’attività professionale effettivamente svolta dal lavoratore: è infatti necessario che il patto consenta di svolgere un’attività conforme alla qualificazione professionale maturata nel corso degli anni.

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Pertanto, quando l’accordo riguarda un intero settore merceologico, si deve distinguere tra le attività tipiche ed esclusive del settore e le attività esercitabili indifferentemente in altri settori e, in relazione a tale distinzione, verificare se al lavoratore rimanga o no la possibilità di esercitare un’attività conforme al proprio corredo professionale (Cass. n. 10062/1994).

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Ad ogni modo, deve sussistere una correlazione tra attività vietate e interesse del datore di lavoro: si esclude, infatti, l’illegittimità del comportamento di un lavoratore che, pur lavorando alle dipendenze di un’impresa concorrente a quella del datore di lavoro nei confronti del quale si è impegnato con il patto di non concorrenza, svolga mansioni diverse rispetto a quelle esplicitate nel pregresso rapporto e non comporti alcun pericolo di concorrenza. Stesse considerazioni per i limiti territoriali, che devono essere valutati in relazione ai limiti posti dall’accordo alla attività da svolgere.

La ratio della norma rimane quella di garantire al lavoratore la possibilità di continuare a svolgere un’attività confacente alle proprie attitudini e capacità. Pertanto, si ritiene che l’ambito territoriale del patto non possa rilevare di per sé. Secondo l’orientamento oggi prevalente, sono validi anche i patti estesi a tutto il territorio nazionale o comunitario se non pregiudicano professionalità, diritti al lavoro e retribuzione sufficiente (Cass. n. 13282/2003).

Compensi pattuiti

Per la validità del patto di non concorrenza il compenso pattuito deve avere il carattere della congruità in relazione alla attività lavorativa sacrificata. L’articolo 2125 c.c. lascia alle parti la più ampia autonomia nella determinazione del quantum e del quomodo del versamento del corrispettivo dovuto al dipendente, senza limiti minimi o criteri di liquidazione. Il corrispettivo può consistere anche nella remissione di un debito che sfugge al divieto di compensazione a causa della diversa natura e funzione del patto rispetto al contratto di lavoro (Cass. n. 6618/1987).

La corresponsione del compenso può avvenire prima o dopo la cessazione del rapporto di lavoro, anche sotto forma di percentuale sulla retribuzione, a rate mensili per tutto il periodo di vigenza del patto o in un’unica soluzione alla cessazione del rapporto.

Ai fini di un giudizio concreto sulla congruità del compenso si deve tenere presente: misura della retribuzione, estensione territoriale del divieto, professionalità del dipendente e attività lavorativa sacrificata. È nullo, pertanto, il patto di non concorrenza in presenza di una oggettiva estrema modestia del corrispettivo e estensione del sacrificio della professionalità, con conseguenti ridotte opportunità lavorative.

Clausole e violazioni

Si discute in giurisprudenza sulla validità delle clausole mediante le quali si riserva al datore di lavoro la facoltà di vincolare o meno il lavoratore al patto stesso. La clausola che attribuisce al datore di lavoro la facoltà di recedere unilateralmente dal patto in qualsiasi momento è considerata valida purché la facoltà di recesso sia limitata al periodo antecedente alla cessazione del rapporto di lavoro (Cass. n. 1968/1980).

La violazione del patto costituisce inadempimento contrattuale e legittima in primo luogo le richieste di adempimento o di risoluzione del contratto e/o di risarcimento del danno. Sono però fin troppo evidenti le difficoltà insite nella quantificazione del danno, soprattutto nel caso in cui la violazione del patto si realizzi mediante lo svolgimento di lavoro subordinato a favore di imprese concorrenti, essendo frequente l’assunzione da parte del nuovo datore di lavoro dell’impegno a sostenere i costi dell’eventuale risarcimento.

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Per queste ragioni è frequente (e caldamente consigliato) l’inserimento di clausole penali, considerato secondo unanime valutazione legittimo, salva la facoltà del giudice di ridurre, anche d’ufficio, l’entità qualora siano di importo eccessivo. Infine, nel caso in cui il patto sia dichiarato nullo, il datore di lavoro può esercitare, nei limiti della prescrizione decennale, l’azione di ripetizione delle somme corrisposte al lavoratore.


a cura di Roberto Grementieri