Apple, dalla Cina problemi per le condizioni di lavoro dei dipendenti

di Liliana Adamo

27 Febbraio 2012 16:30

La Fair Labor Associaton ha effettuato dei controlli negli stabilimenti Apple in Cina, per verificare le corrette condizioni di lavoro dei dipendenti.

Dalla Cina continuano ad arrivare problemi per la Apple: dopo il possibile stop alla commercializzazione dell’iPad (a causa di una presunta precedente registrazione del marchio da parte di un’azienda locale) ecco una possibile macchia che si apre sul fronte del lavoro: le condizioni degli addetti al processo d’assemblaggio negli stabilimenti di Shenzhen non sarebbero a norma. Almeno secondo parte delle maestranze.

Per questo motivo, Auret Van Heerden – presidente del Fair Labor Associaton, una organizzazione no-profit per i diritti del lavoro – ha dato disposizioni di controllare il modus operandi nello stabilimento cinese. A questo, è seguito un dettagliato report sulle condizioni di lavoro degli operai cinesi che lavorano per l’azienda di Cupertino.

Secondo quanto riferito in un’intervista rilasciata a Reuters, e contrariamente a ciò che crede circa metà dell’opinione pubblica, gli addetti alla produzione degli iPod, godrebbero di trattamenti economici superiori rispetto alla norma. In altre parole, considerate le condizioni in cui versano altri lavoratori cinesi (nelle fabbriche d’abbigliamento, per esempio), il grido d’allarme uscito dalla Foxconn (fornitore principale del colosso It) sembrerebbe sproporzionato, addirittura pretestuoso. La Foxconn, insomma, è un luogo di lavoro “tranquillo”, secondo Auret Van Heerden.

Inviato da Tim Cook a costatare la reale situazione nelle fabbriche dei propri fornitori, il presidente del FLA ha anche aggiunto diverse “interpretazioni” per addurre i motivi dei 18 suicidi avvenuti nel 2011 tra i lavoratori. Al momento, sono in corso incontri e colloqui con migliaia di dipendenti per capire realmente le condizioni di vita e lavoro di ciascuno. Colloqui che agevoleranno i vari audit del FLA a esemplificare il rapporto su salute, sicurezza, salari, orari di lavoro, grado di comunicazione con i dirigenti. I risultati di queste prime ispezioni saranno messi in rete ai primi di marzo.

Ma andiamo con ordine: le ispezioni riguardano i fornitori in Cina che assemblano oltre il 90% dei prodotti Apple e, a breve, si estenderanno a Chengdu, Quanta e Pegatron. Per la casa madre, l’ostruzionismo, le proteste, il polverone mediatico delle ultime settimane, si sono trasformati in un boomerang senza precedenti. La polemica sembra aver attecchito sull’opinione pubblica che, fino a pochi mesi fa, ha osannato un’azienda costruita sul genio creativo e “rivoluzionario” di un self made man come Steve Jobs, ritenuto autentico innovatore dell’era techno.

Un vero e proprio attacco “frontale” e senza esclusione di colpi, mentre la reazione del nuovo Ceo, Tim Cook, non si è fatta attendere: “Riteniamo che i lavoratori in ogni parte del mondo abbiano diritto a un ambiente di lavoro sicuro ed equo…” Quale miglior testimonial, se non la Apple, per avviare una campagna in difesa dei lavoratori? Insomma, la palla rimbalzata è stata prontamente respinta con controlli a tappeto e risultati pubblici.

La questione si enfatizza dopo la pubblicazione di un lungo reportage a cura  del New York Times, cui fa seguito un articolo della stessa testata, inchiodando la Apple alle sue responsabilità, di come quel successo non produca alcun posto di lavoro per gli operai americani.

Facile intuire che, in tempi di crisi occupazionale, le magagne di Apple non possono più essere scagionate da profitti “delocalizzati”, ed ecco che si palesa l’altra faccia della medaglia: i turni infiniti degli operai Foxconn, i suicidi a ripetizione avvenuti lo scorso anno, l’avvelenamento per l’uso improprio di prodotti chimici, causa, scarsa osservanza alle norme di sicurezza.

Brooke Crothers, su Cnet, pone la questione in maniera più concreta e imparziale. Un eventuale boicottaggio non può fermare soltanto Apple: quasi tutti i giganti dell’hi – tech incrementano i loro redditi portando le produzioni in Estremo Oriente, dove le condizioni di lavoro non sono paragonabili a quelle di un occidente ancora protetto.