Una recente sentenza della Corte di Cassazione mette nero su bianco la definizione di “straining“, una forma attenuata ma non meno lesiva di mobbing subita da coloro che – anche se in casi isolati – sono oggetto di una qualche forma di violenza psicologia sul posto di lavoro. La sentenza n. 2860 del 3 luglio 2013, in particolare, sancisce la legittimità del risarcimento a favore di un dipendente bancario demansionato senza alcuna motivazione apparente, vessato ed emarginato fino al punto di essere costretto a lavorare in un ambiente angusto e a svolgere mansioni dequalificanti e ripetitive.
Tra i comportamenti discriminatori subiti dal lavoratore, ad esempio, figurano la sottrazione di responsabilità in favore di un’altra dipendente, come anche le ingiuste e aspre critiche mosse dai dirigenti e la convocazione di un incontro intersindacale al fine di criticare l’operato e la condotta dello stesso. Episodi che, secondo l’accusa, hanno determinato gravi danni al lavoratore nonostante i suoi diretti superiori siano stati inizialmente assolti dalla Corte d’appello civile di Milano.
La Suprema Corte, riesaminando il caso, ha invece ritenuto l’esistenza di lesioni causate dalla condizione di emarginazione imposta al dipendente, nello specifico “disturbo dell’adattamento e reazione depressiva prolungata da problemi sul lavoro”.