Se un dipendente offende il suo superiore, anche epitetandolo con aggettivi volgari, può essere sanzionato ma non licenziato.
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Una sentenza della Corte di Cassazione (n. 2692/15 depositata l’11 febbraio) mette nero su bianco questo principio, chiarendo che l’atto di insultare verbalmente il capo rappresenta un illecito disciplinare ma non integra la giusta causa di licenziamento.
La vicenda riguarda, nel dettaglio, il rapporto di lavoro che si inserisce nel c.c.n.l. per i dipendenti dell’industria metalmeccanica privata. Secondo i giudici, il dipendente non si era rifiutato di espletare le sue mansioni e non era venuto meno ai suoi obblighi contrattuali, pertanto il licenziamento non può essere confermato e l’azienda deve reintegrare il lavoratore.
Una condotta che viene classificata come “insubordinazione” senza, tuttavia, che sia stata compromessa la prestazione lavorativa o che siano stati contestati i “poteri” del superiore. Secondo il contratto collettivo di riferimento, inoltre, un episodio di insubordinazione lieve ha come conseguenza una sanzione conservativa, mentre il licenziamento per giusta causa è previsto, come sanzione disciplinare, in caso di fatti di insubordinazione molto più gravi.
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