Il dipendente che svolge più lavoro di quello che gli spetta – lamentandosene e chiedendo un indennizzo – è tenuto a dimostrare che i ritmi serrati gli sono stati imposti dal datore di lavoro e che non si tratta, invece, di una scelta del tutto volontaria.
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Sulla base di questo principio, quindi, nel caso in cui non sia possibile fornire le prove, il superlavoro compiuto non può essere risarcito. Lo sostiene la Corte di Cassazione (sentenza 17438/2015), sottolineando come non sia possibile riconoscere il danno biologico al lavoratore che si prende la responsabilità di compiere più sforzi di quanti gli sono stati richiesti.
Se il surplus di lavoro non è stato imposto dal “boss”, infatti, quest’ultimo non può essere accusato di non aver tutelato l’integrità fisica e morale del suo dipendente.
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Nel caso specifico della sentenza, il dipendente non ha fornito alcuna documentazione che testimoniasse la specifica richiesta del capo di lavorare di più per raggiungere determinati obiettivi di produttività.