Un’azione legale, che aspira a diventare una class action, da parte di tre donne ex dipendenti, tutte e tre in posizioni elevate, le quali accusano l’azienda di discriminazione sessuale. È l’ultima tegola caduta sulla Goldman Sachs, banca d’affari americana che non ha certo bisogno di presentazioni, e che proprio nel luglio scorso ha pagato la cifra più alta mai sborsata da una società finanziaria a stelle e strisce (550 milioni di dollari) per risolvere un caso con la Sec, la Consob Usa, che la accusava di frode in relazione alla vendita di alcuni prodotti finaniziari.
Insomma, non c’è proprio pace per una delle più prestigiose istituzioni della finanza americana. I due casi, naturalmente sono del tutto differenti. Ma certo non sfugge l’insidia rappresentata da un contenzioso legale come quello appena aperto dalle tre ex dipendenti. Le quali ritengono di essere state discriminate nelle retribuzioni e nella carriera.
L’esposto è stato presentato presso il tribunale di Manhattan. E segnala che le discriminazioni in azienda riguarderebbero in particolare le donne inquadrate ad alto livello: quadri, vicepresidenti, direttori generali. Un pregidiuzio, dicono le accusatrici, che riguarda «l’intera cultura aziendale» e che comporta per le donne stipendi inferiori a parità di grado e maggiori difficoltà ad ottenere promozioni.
L’azienda ha già reagito, negando ogni addebito e sottolineando di fare «sforzi straordinari per assumere, far crescere e tenere in posizioni di rilievo le professionalità femminili».
Le tre accusatrici sono Cristina Chen-Oster, che è stata vicepresidente per otto anni, Lisa Parisi, prima vicepresidente e quindi managing director per un totale di sette anni, e Shann Orlich, associata per un anno. Chiedono che la causa ottenga lo status di class action e chiedono anche all’azienda un risarcimento per i mancati introiti determinati dalla differenza fra il loro stipendio e quelli degli uomini in analoghe posizioni nonchè i danni per lo stress a cui sono state sottoposte.
Fra le altre cose, la documentazione legale presentata prevede una serie di dati che mostrano come le donne rappresntino il 29% dei vicepresienti di Goldman e il 17% dei managing directors.
Al di là del merito, in cui evidentemente entreranno a questo punti i magistrati americani, si tratta di una causa che fa scalpore perchè riguarda, appunto, un’istituzione particolarmente prestigiosa in cui si sono formati e hanno fatto carriera professionisti poi arrivati ai vertici dell’amministrazione americana.
La causa, comunque, riaccende i riflettori sulla questione relativa alla valorizzazione, o alla discriminazione a seconda di come la si guarda, delle donne a Wall Street. Ci sono precedenti altrettanto prestigiosi. Per esempio, un’analoga accusa negli anni scorsi contro Morgan Stanley, terminata circa sei anni fa con un pronunciamento a favore delle accusatrici che costò all’azienda 54 milioni di dollari.
E, fuori da Wall Street, c’è un caso recentissimo, nonchè molto noto, quello di Wall Mart. Risale allo scorso mese di aprile il via libera deciso dalla corte federale d’appello di San Francisco all’azione legale intrapresa dalle dipendenti del colosso della grande distribuzione, nella più grande azione legale collettiva della storia del sistema giudiziario americano.