Da tempo le agenzie di rating sono nel mirino della critica. Ad agosto il Dipartimento della Giustizia Usa ha aperto un’inchiesta su Standard & Poor’s per accertare la fondatezza dell’ipotesi di conflitto di interessi in relazione
all’attività valutativa del rischio di alcuni titoli.
Da molte parti piovono ripetute accuse di scarsa obiettività e indipendenza, anche considerando la composizione dei loro consigli di amministrazione e gli intrecci fra gli azionisti.
L’economista Michael Hudson, presidente di ISLET (Institute for the Study of Long-Term Economic Trends), ha passato al setaccio la loro attività ed è giunto alla conclusione che le agenzie di rating esercitano un ruolo politico e non meramente “tecnico” mettendo sotto pressione gli Stati, come Islanda, Grecia e Stati Uniti, affinché agiscano a vantaggio solamente dei creditori. Per di più forzano governi e amministrazioni in condizioni di difficoltà a
vendere i loro beni aggravando la loro crisi.
Questa strategia è stata a lungo perfezionata in ambito locale e ha, a suo giudizio, risvolti di corruzione.
Le agenzie di rating sono interessate allo scorporo di aziende pubbliche in nuove entità societarie con nuova
emissione di obbligazioni e titoli. Non vedono bene le pubbliche amministrazioni che si finanziano con il sistema pay-as-you-go (PAYG), cioè con entrate dell’anno in corso, aumentando le imposte e le tasse su beni
immobili, redditi ecc., per coprire le loro spese.
Le istituzioni pubbliche sono condizionabili quando i loro livelli di indebitamento impongono un rigore finanziario. Le banche restringono le linee di credito e sollecitano le amministrazioni locali e gli Stati a pagare i loro debiti dismettendo le loro migliori imprese pubbliche.
Offrire consulenza su questa pratica è diventato un grande affare per le agenzie di rating. Così si capisce perché
il loro modello di business si oppone a politiche – e candidati politici – che sostengono l’idea di basare il risanamento pubblico sulla tassazione piuttosto che sui prestiti. Ciò che è mascherato come opinione in realtà rappresenta un interesse economico.
Ci sono numerosi esempi nel tempo che si possono citare per avvalorare questa tesi, dice M. Hudson. Il caso più
noto è quello di Cleveland, durante la sindacatura di Dennis Kucinich.
Qui il sindaco fu costretto a resistere alla collusione di banche e agenzie di rating che minacciavano il declassamento della città e il blocco dei finanziamenti se non si fosse dato luogo alla privatizzazione dell’utility Muni Light al posto di un aumento delle imposte. Stessa sorte è stata subita da altre amministrazioni che purtroppo hanno dovuto cedere ai ricatti cadendo nella trappola del debito.
La morale è che le agenzie di rating mirano unicamente al loro particolare interesse in un meccanismo perverso che approfitta delle crisi del settore pubblico costringendolo a svendite contro il bene generale per spartirsi la torta insieme agli altri rilevanti attori economici.
Oltretutto per riuscire nei loro intenti si danno da fare per ostacolare più severi controlli anti-frode. In Georgia, un
esempio citato nel libro di Josh Rosner e Gretchen Morgenson “Reckless Endangerment”, Standard & Poor’s, Moodys e Fitch hanno apertamente osteggiato una legge dello Stato a favore di maggiori sanzioni contro comportamenti fraudolenti di broker e operatori finanziari.
“In un mondo perfetto S&P, Moody’s e Fitch non esisterebbero – ha sostenuto Francesco Guerrera, caporedattore finanziario del Wall Street Journal – quantomeno non investite della funzione di giudici globali di obbligazioni statali e societarie”. “La storica decisione di S&P del 5 agosto 2011 – continua riferendosi all’abbassamento del rating inflitto
al debito sovrano degli Stati Uniti – costituisce il momento culminante di 75 anni di errori politici che hanno finito per delegare il fondamentale compito di regolazione a soggetti con fini di lucro”.