Multicanalità, un’illustre sconosciuta

Negli ultimi tempi parlare di multicanalità è molto di moda, soprattutto nelle amministrazioni pubbliche. Ma cosa vuol dire multicanalità? Non esiste una definizione esaustiva, tanto meno una “letteratura” specifica sul tema. Si tratta di una «parola ombrello» che, come ci ricordava Carlini, ricorre nei più svariati contesti per dire tutto e il contrario di tutto. Le poche sistematizzazioni esistenti affrontano la questione esclusivamente dal versante tecnologico, come se il tutto si riducesse ad un problema d’ingegneria.

Per multicanalità, invece, si deve intendere molto più che la semplice e disordinata aggiunta di canali e strumenti per la comunicazione. Chi ragiona in questi termini infatti non fa che alimentare il rischio di cacofonia, oltre che inserire nuove voci di costo nei bilanci pubblici senza alcuna certezza sulla possibilità di ottenere concreti “ritorni”. Quando si parla seriamente di multicanalità, invece, bisogna immaginare un utilizzo armonico e sincronizzato dei media che mira ad una gestione coerente dell’interazione con i pubblici di riferimento. Questo per affermare che la multicanalità non può che essere figlia di un approccio multidisciplinare.

Volendo allora dare una definizione di multicanalità bisogna quindi far riferimento al concetto di sistema, spostando il fuoco dell’attenzione dalla superficie della comunicazione alle fondamenta. Là dove troviamo i modelli d’interazione. Questo non significa trascurare la natura dei singoli strumenti e canali, le cui interfacce rappresentano di fatto i luoghi dell’interazione, ma al contrario considerarli secondo un punto di vista globale.

L’attenzione va dunque reindirizzata su tutta l’architettura comunicativa: dalla tipologia del rapporto tra gli interlocutori (comunque stabilito dalle amministrazioni), alla scelta e armonizzazione di canali, interfacce, linguaggi. Il tutto per riuscire nel fondamentale obiettivo di governance dell’interazione con i propri pubblici di riferimento.

Ecco allora che multicanalità significa innanzitutto strategia di relazione. Significa mettersi in contatto con i più, mettersi sul loro stesso piano, usare tecnologie bidirezionali, instaurare rapporti negoziali. Con questo nuovo potere significante il termine potrebbe quindi ritenersi trasversale sia al campo dell’e-government che a quello dell’e-democracy.

Le tipologie dei canali

Rimanendo in un’ottica che predilige la strategia di relazione, non appare esaustivo nemmeno l’approccio di Miani, quando sostiene che l’e-government e l’e-democracy sono termini di una stessa equazione che vede l’applicazione delle nuove tecnologie alla sfera pubblica: «anche i progetti di governo elettronico che apparentemente sono focalizzati solo sul recupero dell’efficienza in realtà hanno pesanti ripercussioni sulla costruzione del rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione».

Certamente le nuove tecnologie devono essere messe al servizio della costruzione di un rapporto tra Stato e cittadino che metta al centro quest’ultimo, come previsto dallo spirito della stessa Carta Costituzionale. Tuttavia, un conto è definire una precisa policy, una precisa strategia di relazione, un altro è lasciare che quest’ultima scaturisca come “effetto collaterale” da un seppur efficace servizio “interattivo”.

Visione questa che tra l’altro ritroviamo in Forghieri, direttore dei servizi di comunicazione del Comune di Modena: «una strategia [multicanale] vincente si basa sulla definizione chiara dei principi sui quali si intende impostare la relazione con gli utenti e l’erogazione dei servizi». Un’affermazione che è in qualche modo compromessa dalla sua comunque interessante categorizzazione dei canali in:

  • informativi, con ridotta valenza di interazione bidirezionale. Dove la priorità è agevolare al massimo l’accesso all’informazione e alla conoscenza;
  • relazionali, sui quali sono facilitate le relazioni bidirezionali e la raccolta di feed back: la priorità è orientare, rispondere ai bisogni complessi, ascoltare, creare uno scambio reciproco;
  • transattivi, con i quali è vantaggioso gestire gli scambi per l’utente o per l’amministrazione; priorità è erogare il servizio, chiudere la pratica, gestire i flussi di dati che occorrono, ottimizzare tempi, costi e risorse.

Forghieri ci suggerisce insomma che il disegno complessivo della multicanalità dovrebbe portare al centro del rapporto con l’utente i canali relazionali, fornire molteplici canali informativi dove ci sia la garanzia di poter trovare dati sempre aggiornati, mettere a disposizione canali transattivi pratici e sicuri per concludere le pratiche, pianificando la strategia sulla base delle caratteristiche dei segmenti di utenti individuati.

Meglio sarebbe però se invece di canali parlassimo di strategie di relazione: nessuna tecnologia può determinare a priori le forme e gli esiti della comunicazione. I canali sono un mezzo e non un fine, a disposizione di chi voglia veicolare senso, anche se la tecnologia non è mai strumento neutro e usabile per ogni scopo. Pur non determinando gli esiti della comunicazione, la tecnologia ha comunque una forte influenza sui nostri modi di agire, pensare e relazionarci, essendo né buona, né cattiva, ma nemmeno neutrale.

La checklist della multicanalità

L’esperienza sul campo di chi tutti i giorni si confronta con queste problematiche ci suggerisce tuttavia che questo disegno virtuoso può realizzarsi se si considerano almeno quattro fattori critici.

1. Il modello redazionale. Occorrono innanzitutto degli “esperti di linguaggi”, professionisti che di volta in volta sappiano costruire delle assonanze tra canale, linguaggio, target, contesto di fruizione. Una moderna redazione deve poi dotarsi di software di Content Management System che vanno corredati da linee guida e manuali di scrittura per la multicanalità.

2. Infrastruttura tecnologica. Il salto di qualità è dato dalla presenza di un database centralizzato in cui i contenuti inseriti siano codificati in linguaggio XML, ai quali poi, in fase di output, si possa associare un template diverso per ogni canale di front end. La scelta migliore sembra essere quella di utilizzare il web come deposito di contenuti, da cui, per sottrazione, estrarre i messaggi da veicolare sugli altri canali. Così come ci insegna il case history del Comune di Bologna.

3. La “volontà politica”. Si dovrebbe puntare su relazioni di lungo periodo basate sulla fiducia reciproca. Fiducia che si guadagna solo in presenza di un rapporto tale per cui prima di parlare si ascolta.

4. Il modello di sostenibilità economica. Basato su indicatori prettamente business like, al momento non può essere elaborato. Più che di contabilità analitica e di breve periodo bisognerà parlare di reattività nell’offerta di comunicazione, di controllo di gestione, di investimento socioculturale nella propria comunità, di marketing territoriale.

Tutto perfetto quindi se si osservano queste indicazioni e soprattutto in presenza di un hub multicanale come quello adottato dal Comune di Torino e di un buon software CMS? No, è proprio lì il problema. Se davvero si vuol puntare sulla comunicazione, difficilmente si potrà ritenere soddisfacente l’estrazione automatica, dalla descrizione web, dei messaggi da disseminare sugli altri canali. Le ICT offrono questa possibilità, spesso a costi contenuti, ma l’esperienza sul campo ha mostrato che puntare sulla specificità della comunicazione significa riadattare i contenuti mantenendo la coerenza tra linguaggio, target, canale e contesto di fruizione.

Tutto da rifare quindi? No, poiché arrivati all’estremo del ragionamento sulla modularità e sulla separazione forma/contenuto, si può cogliere una volta di più il valore del linguaggio, del contratto di lettura, dell’interazione, e quindi assegnare in maniera sempre più libera da vincoli tecnologici le proprie priorità.