AIFM: Private Equity e sviluppo d’impresa

di Ermanno Cece

Pubblicato 10 Luglio 2009
Aggiornato 6 Febbraio 2014 11:15

Cosa sono i fondi di investimento alternativi, come possono aiutare le imprese a crescere e come potrebbero evolversi alla luce del nuovo quadro normativo proposto in sede Ue

I fondi alternativi

Dopo un lungo processo preparatorio, la Commissione europea ha da poco presentato la bozza di Direttiva sui gestori di fondi di investimento alternativi (AIFM – Alternative Investment Fund Manager), in attesa di passare all’esame del Parlamento europeo e del Consiglio. Qualora venisse raggiunto un accordo entro fine 2009, la direttiva potrebbe entrare in vigore già dal 2011.

Si tratta del primo tentativo di creare un quadro giuridico e di controllo completo per l’industria di riferimento, cui afferiscono i gestori di fondi hedge, immobiliari, i fondi infrastrutturali, di materie prime e di private equity.

Considerato l’impatto sui mercati e sulle imprese nelle quali investono, questi operatori sono oggi sempre più importanti nel sistema finanziario, adoperando differenti strategie e tecniche di investimento e impiegando le risorse gestite in diversi strumenti finanziari: azioni, obbligazioni, materie prime, quote di progetti immobiliari ed infrastrutturali e quote azionarie di imprese.

Essendo per lo più caratterizzati da un alto livello di rischio, i loro prodotti risultano appetibili per operatori istituzionali e professionali (istituti di credito, banche di investimento, fondi pensioni, fondazioni universitarie e bancarie, partner industriali, ecc.).

Le loro attività, al momento, sono regolate dalle varie normative esistenti nei singoli Stati membri dell’Unione europea. I recenti eventi sfociati nella crisi che ha colpito i mercati finanziari internazionali hanno però dimostrato che una disciplina così frammentata, con particolare riferimento alle regole di trasparenza e di rischio associato agli investimenti, non è in grado di regolamentare il settore e garantire la clientela.

Riconoscendo queste difficoltà, le istituzioni comunitarie stanno tentando di creare un quadro normativo appropriato al quale tutti gli operatori dovranno conformarsi.

Capitale di rischio e opportunità per le imprese

Sul fronte delle imprese l’opportunità di ricorrere ad operatori specializzati nel sostegno finanziario finalizzato alla creazione di valore, consente alle imprese di reperire capitale “paziente”, da utilizzare per sostenere piani di sviluppo, nuove strategie, tecnologie e prodotti, nonché finanziare acquisizioni aziendali, passaggi generazionali o altri processi critici del loro ciclo di vita, rafforzando la propria struttura finanziaria.

Un ulteriore vantaggio deriva dalla disponibilità di know-how manageriale che l’investitore mette a disposizione dell’impresa per il raggiungimento dei suoi obiettivi di sviluppo, apportando nella impresa finanziata non solo investimenti ma anche saperi, contatti e collaborazioni.

Selezionando imprese ad alto potenziale di crescita ed erogando risorse finanziarie atte a supportarle, il capitale di rischio ha contribuito all ‘ espansione del sistema industriale ed economico, dapprima in USA e Gran Bretagna e poi in Europa (Germania, Francia, Italia e Spagna) e nei paesi asiatici più sviluppati. Ma che impatto potrebbero avere le disposizioni della bozza su gestori europei di di Private Equity, qualora entrassero in vigore?

Vediamo cosa potrebbe cambiare per i soggetti che investono nel capitale di rischio delle imprese (e specialmente quelle di media dimensione, uno dei principali motori del sistema economico europeo), strumento privilegiato per realizzare operazioni di buy-out e buy-in.

La normativa proposta

Le norme della nuova Direttiva Ue mirano a regolamentare le attività di tutti gli operatori con almeno 100 milioni di euro in gestione o, in caso di fondi che non facessero ricorso alla leva finanziaria o che non garantissero diritti di recupero agli inventori per un periodo di 5 anni, di 500 milioni di euro.

La soglia di 100 milioni di euro dovrebbe garantire ai gestori più piccoli, operanti in settori di nicchia, di non conformarsi alle rigide norme della Direttiva.

Anche il limite di 500 milioni di euro, insieme alle due suddette condizioni, assicurerebbe ai fondi di start-up e venture capital – che sostanzialmente non pongono un rischio sistemico e diretto alla stabilità del sistema finanziario – di muoversi con maggiore libertà operativa, non ricadendo nella disciplina.

I soggetti interessati dalla Direttiva, per esercitare la loro attività, dovrebbero essere autorizzati da una Autorità competente esistente in ciascuno Stato Membro della UE.

Ciascuno dovrebbe dimostrare la propria capacità di gestione e fornire dettagliate informazioni su: pianificazione dell’attività, identità e caratteristiche dei fondi, governance dei gestori, comprese le regole di delega dei servizi di gestione, regole interne su risk management, valutazione e tutela degli asset, udit e sistemi di reporting, laddove richiesti.

In particolare, dovrebbero fornire ragguagli su mercati e strumenti adoperati, esposizioni di maggiore entità nonché dati inerenti le performance e la concentrazione del rischio. Infine, dovrebbero rendere nota alla stessa Autorità l’identità di ciascun fondo gestito e le regole di organizzazione e gestione del rischio ad esso relativi.

Obblighi di trasparenza addizionali sarebbero poi richiesti ai gestori di fondi nel caso in cui essi facessero ricorso alla leva finanziaria e qualora fossero in possesso di quote azionarie di imprese.

Per assicurare stabilità e integrità del sistema finanziario, la normativa rafforzerebbe i poteri della Commissione di porre limiti alla capacità di utilizzo della leva e, qualora essa venisse impiegata costantemente oltre determinate soglie – con un rapporto tra debito e capitale superiore a 1/1 in due dei precedenti quattro trimestri – il gestore avrebbe l’obbligo di comunicare all ‘ Autorità (del paese in cui è autorizzato ad operare) tutte le informazioni ad essa inerenti.

Per gli operatori che gestiscono quote di capitale di imprese, la bozza prevede l’obbligo di fornire agli altri azionisti e ai rappresentanti dei lavoratori dell’azienda in portafoglio informazioni sui diritti di voto acquisiti (superiori al 30%), strategia di investimento e obiettivi del fondo.

La relazione annuale del fondo deve contenere informazioni sugli sviluppi operativi e finanziari e sulle questioni inerenti gli stessi lavoratori.

Sono esentati dai suddetti obblighi gli operatori attivi nel settore dell’early-stage financing e del venture capital, che investono in imprese di minore dimensione.

Le reazioni di mercato

A causa degli straordinari eventi finanziari dell’ultimo periodo, gli operatori di private equity si trovano oggi a muoversi su un terreno difficoltoso, dove la raccolta di risorse è sempre più concorrenziale e gli investimenti più difficoltosi.

I dati preliminari dell’Associazione europea del Private Equity e del Venture Capital (EVCA), del resto, mostrano che nel 2008 i fondi di private equity hanno raccolto circa 65,3 miliardi di euro, con una diminuzione del 20% sugli 81,4 miliardi del 2007. Allo stesso tempo, l’ammontare investito è crollato del 27% (a 52.4 miliardi di euro), con un calo del 12% nel numero di imprese finanziate.

Vista la situazione di crisi, dunque, l’industria ha accolto la bozza con delusione e preoccupazione: secondo l’EVCA, la Commissione europea starebbe perseguendo una strategia penalizzante in grado di danneggiare gravemente lo sviluppo competitivo di lungo periodo del settore.

Jonathan Russell, Presidente della task force appositamente istituita per valutare la proposta, lamenta il venire meno del principio di proporzionalità: la direttiva, riguardando tutti gli operatori con almeno 500 milioni di euro in gestione, include centinaia di fondi attivi a livello europeo. Per essi, gli obblighi previsti imporrebbero oneri burocratici gravosi per strutture organizzative solitamente molto snelle.

Inoltre, esentando dalla regolamentazione gli investitori personali, i trust di famiglia, le fondazioni, i fondi pensione e i fondi sovrani, tali misure sono giudicate inique perché rischiano di alterare il regime di concorrenza nel quale i gestori operano.

Se tale proposta non venisse modificata – rincara l’Associazione del Venture Capital e del Private Equity Italiana (AIFI) – la normativa che ne scaturirebbe potrebbe avere riflessi negativi anche sul mercato italiano, compromettendo una delle poche fonti di capitale di rischio oggi a disposizione delle nostre imprese.

In effetti, sono diversi i gestori italiani che negli ultimi anni hanno promosso fondi per un ammontare complessivo che supera la soglia di riferimento indicata nel testo e che quindi dovrebbero conformarsi alla nuova disciplina. Il timore è che, nonostante siano disponibili risorse per oltre 100 miliardi di euro, misure come quelle presentate dalla Commissione potrebbero orientare tali capitali verso altre aree del mondo, perdendo una occasione importante di rilancio ed indebolendo così il sistema economico europeo.