Molestie su MySpace, è solo cracking

di Alessandro Vinciarelli

Pubblicato 17 Dicembre 2008
Aggiornato 12 Febbraio 2018 20:48

Non molti giorni fa si è finalmente concluso un processo strettamente legato al tema del cyberbullismo e dei siti di social networking.

La vicenda si può raccontare in poche parole. Una donna si registra a MySpace fingendosi un ragazzo e sfrutta questa identità per intrattenere rapporti sociali sul Web con una giovane adolescente che le abitava non molto lontano. Purtroppo la ragazza, 13enne, dopo aver subito rifiuti e angherie su Internet, si è tolta la vita, mentre la donna 49enne è stata condannata e rischia tre anni più una multa significativa.

Il caso in questione ha generato un movimento sul Web alla ricerca di informazioni e di momenti di incontro virtuale attraverso i quali discutere della nuova realtà dei social networking e dei rischi nascosti dietro allo schermo di un computer.

La donna imputata si chiama Lori Drew e si avvaleva, per portare avanti il suo malsano gioco di due complici che a vario titolo supportavano questa pratica ignobile. Di fatto l’adolescente, Megan Maier, non ha fatto altro che illudersi che dietro a quel nickname ci fosse un ragazzo 16enne interessato a lei.

Immediatamente dopo il suicidio le forze di polizia hanno iniziato a mobilitarsi, portando la Drew davanti ad un tribunale. Da questo momento in poi è iniziata l’eterna odissea della giustizia che alla fine ha prodotto una condanna a tre anni di carcere e 300mila dollari di sanzione.

Il reato commesso, mancando le basi normative per tali circostanze, non è penale, ma civile. Non essendo disponibili altre leggi a riguardo, la vicenda è stata risolta dal Computer Fraud and Abuse Act, una legge anticracking del 1986, e dalla sentenza di violazione delle condizioni contrattuali di MySpace.

La conclusione di questa brutta storia non ha però soddisfatto nessuno. Chi cercava giustizia non l’ha trovata, mentre chi si limita ad utilizzare la rete come strumento per comunicare si sente ora a rischio carcere.

Ricorrere al Computer Fraud and Abuse Act è stata per molti la prova evidente che una legge anticracking possa diventare senza troppi problemi una sentenza per imputare criminali di vario genere, trasformando di fatto un non corretto uso di pseudonimi e di condizioni del servizio in un reato perseguibile civilmente.