Tratto dallo speciale:

Interinali: come giustificare il tempo determinato

di Francesca Vinciarelli

Pubblicato 13 Ottobre 2014
Aggiornato 20 Ottobre 2014 10:04

La sentenza della Cassazione che precisa quando è possibile giustificare la somministrazione a tempo determinato.

In caso di contratto interinale, per giustificare la somministrazione a tempo determinato è necessario dimostrare picchi di attività.

Picchi di attività

A chiarirlo è stata la Corte di Cassazione con la sentenza n. 21001/2014: la causale relativa alle «punte di intensa attività non fronteggiabili con il ricorso al normale organico» è ascrivibile alle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che consentono, ai sensi dell’articolo 20, comma 4, del D.Lgs. n. 276/2003, il ricorso legittimo alla somministrazione a tempo determinato.

=> Mercato del lavoro: meno posti, più precarietà

Onere della prova

Alla società utilizzatrice spetta poi, in caso di contestazione, l’onere di provare l’effettiva esistenza di tali ragioni. Nel caso i esame tale prova del collegamento delle commesse alla specifica utilizzazione del lavoratore a tempo determinato non era stata fornita, così la Cassazione ha confermato la condanna della Corte d’Appello di Venezia di ripristinare il rapporto di lavoro a tempo indeterminato con il lavoratore. In sostanza per la Corte era evidente una ipotesi di somministrazione irregolare di lavoro al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui al D.Lgs n. 276 del 2003 artt. 20 e seguenti, per cui il lavoratore può legittimamente chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, con effetto dall’inizio della somministrazione.

=> Riforma del Lavoro: indeterminato per vecchi e nuovi assunti

Risarcimento

La Corte ha tuttavia accolto il ricorso presentato dalla società utilizzatrice riguardante la determinazione del risarcimento del danno spettante al lavoratore e la mancata applicazione, da parte della Corte d’Appello, del disposto di cui all’art. 32, comma 5, della Legge n. 183/2010 (cosiddetto collegato lavoro): in caso di conversione del contratto a tempo determinato, viene stabilita una condanna al risarcimento del danno corrispondente ad un’indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 604/1966.

=> Contratto a tempo determinato: legittimità dei risarcimenti

Nella propria sentenza, la Corte di Cassazione ha motivato la propria decisione precisando che:

“L’indennità prevista dall’art. 32 legge n. 183/10 trova applicazione ogni qual volta vi sia un contratto a tempo determinato per il quale operi la conversione in contratto a tempo indeterminato e, dunque, anche in caso di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore che abbia chiesto ed ottenuto dal giudice l’accertamento della nullità di un contratto di somministrazione lavoro convertito – ai sensi dell’ultimo co. dell’art. 27 d.lgs. n. 276/03 – in un contratto a tempo indeterminato tra lavoratore e utilizzatore della prestazione”.