Tratto dallo speciale:

Segreto aziendale: obbligo riservatezza per dipendenti

di Roberto Grementieri

13 Gennaio 2020 10:36

Segreto professionale e segreto aziendale: due norme a confronto per orientarsi nella giungla degli obblighi dei dipendenti e dei diritti degli imprenditori.

L’art. 2105 c.c. vieta al lavoratore di divulgare notizie attinenti all’azienda e ai suoi metodi di produzione, o di farne uso in modo da recarle danno o pregiudizio. Tuttavia, è importare ricordare che secondo un orientamento dottrinale il diritto al segreto è diverso rispetto a quello alla riservatezza. Mentre quest’ultimo consiste nel potere di impedire a terzi l’accesso a spazi privati e preesiste al contratto di lavoro, il primo consiste nella pretesa a che le notizie di cui il terzo sia venuto a conoscenza non siano divulgate, e trova fondamento nel contratto di lavoro.

=> Guida contratti aziendali: obblighi dei lavoratori

Obbligo di non concorrenza

Secondo l’orientamento prevalente, inoltre, con i termini riservatezza e segreto si fa riferimento a ciò che non è di dominio pubblico. La dottrina considera il divieto introdotto dall’art. 2105 c.c. come un dovere connesso all’obbligo di non concorrenza, poiché come quest’ultimo è teso a tutelare l’azienda dai vantaggi che il lavoratore o i terzi potrebbero trarre dalle informazioni giunte all’esterno dell’impresa stessa.

=> Il patto di non concorrenza tra impresa e lavoratore

La prima questione da affrontare è stabilire quali siano le informazioni protette, nelle quali comunque non si annoverano le cognizioni tecniche e specialistiche che fanno parte del bagaglio professionale del lavoratore (Cass. n. 5708/1985). La giurisprudenza è concorde nel ritenere che la norma debba essere interpretata in senso ampio e, cioè riferita a qualsiasi dato influente sull’attività concorrenziale del datore di lavoro, sia di carattere tecnico, amministrativo o commerciale.

=> Il patto di non concorrenza: le risposte alle vostre domande

A favore di una interpretazione ancora più ampia si osserva che all’espressione “metodi di produzione” fa da contraltare quella ben più ampia e generica di “organizzazione dell’impresa” che dovrebbe escludere dalla sfera applicativa dell’art. 2105 c.c. le sole informazioni relative agli aspetti meramente finanziari ed economici.

Si è recentemente osservato come la norma imponga di escludere la verifica caso per caso del carattere segreto o riservato della notizia: se essa riguarda l’organizzazione dell’impresa o i suoi metodi di produzione ne sono comunque vietati l’uso pregiudizievole e la divulgazione. L’obbligo di segreto di cui all’art. 2105 c.c., cosiddetto segreto aziendale, non costituisce una specificazione dell’obbligo di segreto professionale sancito dall’art. 622 c.p., in quanto le fattispecie regolate hanno oggetto e destinatari parzialmente diversi.

Informazioni top secret

L’art. 622 c.p. vieta la rivelazione di notizie delle quali si abbia conoscenza per ragione della propria professione, e dunque presuppone l’esistenza di un nesso causale diretto tra le notizie apprese e le mansioni svolte dal lavoratore; l’art. 2105 c.c., invece, impone il silenzio sulle notizie conosciute per il solo fatto dell’inserimento nell’azienda del datore di lavoro. Mentre l’art. 2105 c.c. – in quanto volto a tutelare l’avviamento dell’impresa – vieta la divulgazione delle sole notizie su organizzazione e metodi di produzione e quelle che comunque possono incidere sulla posizione di mercato dell’impresa, l’obbligo di cui all’art. 622 c.p. – mirando a proteggere libertà e sicurezza dei rapporti professionali – si estende a tutte le notizie riservate riguardanti l’impresa.

Segreto industriale

Analoghe considerazioni sono state fatte per quanto riguarda la tutela del segreto industriale o scientifico di cui all’art. 623 c.p., il quale vieta e punisce la rivelazione di notizie inerenti a scoperte, invenzioni scientifiche o applicazioni industriali, conosciute per ragioni del proprio stato, ufficio, professione o arte. Anche qui, la tutela penale esplica il proprio effetto solo ove vi sia un nesso causale diretto tra le notizie rivelate e le mansioni svolte dal lavoratore.

Il fatto che la divulgazione di notizie riguardanti l’impresa possa costituire illecito penale, ma non rientri nell’obbligo di segreto aziendale, ha scarsa rilevanza pratica sul piano del rapporto di lavoro, poiché la divulgazione di notizie non protette dal segreto aziendale (ma rientranti nella nozione di segreto professionale o scientifico) costituisce comunque un atto tale da ledere irreparabilmente il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e dipendente e, dunque, integra gli estremi della giusta causa di licenziamento.

In giurisprudenza si è ritenuto sussistente il reato di cui all’art. 622 c.p. nel caso in cui il lavoratore, durante il periodo di preavviso, avesse utilizzato le informazioni tecniche e commerciali relative all’impresa datrice di lavoro per formulare un’offerta più vantaggiosa che consentisse al futuro datore di lavoro di aggiudicarsi un appalto a discapito dell’altro. Si è inoltre affermato che costituisce reato, oltre che giusta causa di licenziamento, il comportamento del funzionario di banca che renda nota a terzi l’esposizione debitoria di un cliente e, con riferimento alla diversa fattispecie penale della violazione del segreto istruttorio, si è ritenuto legittimo il licenziamento del dipendente di una società di telecomunicazione che aveva rivelato a un amico che la sua linea telefonica era sottoposta ad intercettazione (Cas. n. 3464/1992).

=> La strategia di protezione della proprietà intellettuale in azienda

Secondo un diverso orientamento, peraltro, qualunque violazione degli art. 622 e 623 c.p. costituisce automaticamente illecito ex art. 2105 c.c. In questo senso la Cassazione ha affermato che se da un lato non è indispensabile che il segreto industriale sia coperto da brevetto, dall’altro l’interesse alla segretezza non può coincidere con il mero arbitrio dell’interessato e, sulla base di tali considerazioni, ha concluso che si deve fare riferimento a un criterio di ragionevolezza sostanzialmente coincidente con l’ambito di applicazione dell’art. 2105 c.c. (Cass. n. 25008/2001).

Diritto dell’imprenditore al segreto

Una questione di particolare rilievo è quella relativa ai limiti del diritto dell’imprenditore al segreto, che derivano dall’esigenza di salvaguardare altri diritti di pari rilevanza e, pertanto, se in talune circostanze il lavoratore sia legittimato a rilevare le notizie coperte da segreto.

In proposito, si può distinguere il caso in cui il lavoratore utilizzi e divulghi le notizie per finalità riconducibili ad interessi pubblici, quali ad esempio il diritto alla salute, per scopi sindacali oppure per interessi individuali o per futili motivi.

Un primo orientamento ritiene che non si possa stabilire a priori se e quali notizie sia lecito rivelare e quali no, dovendosi procedere ad una valutazione caso per caso dei contrapposti interessi. Secondo un diverso orientamento, invece, si dovrebbero ritenere senz’altro prevalenti gli interessi alla tutela della salute e alla tutela delle libertà fondamentali, in quanto questi costituiscono, secondo l’art. 41, comma 2, Cost., una limite preciso alla libertà di iniziativa economica del datore di lavoro e dunque anche alla protezione del segreto aziendale. Muovendo da questo presupposto si afferma tuttavia anche che, laddove non siano in gioco diritti fondamentali della persona, prevarrebbe sempre il diritto al segreto aziendale.

Reato di furto

Si ritiene, infine, in contrasto con l’art. 2105 c.c. la sottrazione da parte del dipendente dell’elenco dei clienti del datore di lavoro, o di documenti contenenti l’analisi dei costi di produzione e dei prodotti aziendali e di copia degli ordinativi (Cass. n. 4135/1985), ovvero la raccolta, da parte del lavoratore, di informazioni sulle caratteristiche tecniche dei macchinari dell’impresa con l’intenzione di utilizzarle per avviare un’attività produttiva in concorrenza con il datore di lavoro.

In particolare, la sottrazione di documenti aziendali al fine di produrli in giudizio contro il datore di lavoro è stata ritenuta, secondo un primo orientamento, oltre che in contrasto con i doveri di cui all’art. 2105 c.c. (Cass. n. 3156/1985) anche integrante gli estremi del reato di furto, rispetto al quale non sarebbe nemmeno ravvisabile l’esimente dell’esercizio del diritto, perché il giudice può sempre ordinare l’esibizione dei documenti al datore di lavoro (Cass. n. 516/1983).

=> Licenziamento per chi copia dati aziendali

L’orientamento più recente, invece, ha adottato soluzioni più attenuate, affermando che è relativamente scusabile il comportamento del lavoratore che abbia fotocopiato i documenti aziendali sulla base del convincimento della loro utilizzabilità per fini processuali.

Sulla scia di queste sentenze si è affermato che la riproduzione dei documenti aziendali è fattispecie diversa e senz’altro più lieve rispetto alla loro sottrazione; che nel caso di riproduzione di documenti in giudizio non può certo parlarsi della loro divulgazione e che il diritto di difesa garantito dall’art. 24 della Cost. prevale sull’esigenza di riservatezza dell’impresa (Cass. n. 6420/2002).