Dalla riforma fallimentare nuove prospettive per il turnaround

di Maurizio Quarta

13 Giugno 2008 09:00

La nuova impostazione della legge fallimentare, centrata sul concetto di crisi e non più di insolvenza e sul recupero dell'impresa in difficoltà sta creando le premesse per un rilevante aumento delle operazioni di turnaround

La nuova legge fallimentare, al di là di molti aspetti tecnici, è portatrice di un grande e significativo impatto sul sistema economico nel suo complesso, sia per le imprese che per i manager: infatti, al di là di possibili affinamenti, ha il grande pregio di creare le premesse affinché anche in Italia si sviluppi un serio mercato del turnaround e delle special situations.

Un mercato serio è sinonimo di trasparenza e regole chiare che non necessitano di più o meno sofisticate operazioni di aggiramento per poter realizzare un intervento: oggi finalmente esiste una concreta e reale possibilità di salvare aziende che prima era troppo complicato salvare e che quindi venivano spesso abbandonate al loro destino, creando al contempo interessanti e significative opportunità per manager di elevata seniority e grandi competenze professionali.

L’intera legge è fortemente orientata alla creazione di un contesto favorevole al recupero dell’impresa in difficoltà e al mantenimento della sua continuità, considerando come estrema ratio l’ipotesi di chiusura: non è infatti casuale che essa sia stata introdotta nell’ambito del cosiddetto decreto sulla competitività, per ridare fiato soprattutto al comparto delle PMI.

Alcuni punti in particolare contribuiranno a creare un contesto facilitante:

  • la revisione della famigerata revocatoria fallimentare:
    in passato imprese salvabili attraverso normali operazioni di disinvestimento non lo sono state per il rischio di revocatoria cui andavano incontro amministratori, banche creditrici e controparti acquirenti, così come il ricorso a servizi indispensabili nell’ottica di una sana gestione (consulenza, temporary management) veniva di fatto precluso per il rifiuto del possibile fornitore di accettare detto rischio. Oggi invece non sono più revocabili «i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività di impresa nei termini d’uso». Il manager impegnato in progetti di risanamento e di rilancio, potrà quindi operare senza essere distratto da tematiche con la gestione vera e propria poco o nulla hanno a che fare;
  • l’allargamento dei confini del concordato stragiudiziale
    (abolizione del requisito di meritevolezza, possibilità di consenso “maggioritario” dei creditori), i cui limiti impedivano di fatto la definizione di accordi importanti per l’azienda per timori di revocatoria o di bancarotta preferenziale. Diventa oggi possibile elaborare un piano di risanamento finanziario, senza rischio di revocatoria, in caso di fallimento, per le azioni poste in essere;
  • la snellezza procedurale
    consentita dal cosiddetto accordo di ristrutturazione (art. 182), che prevede l’omologa con l’accordo del 60% dei creditori;
  • la riduzione dei tempi
    in passato le lungaggini della burocrazia finivano di fatto per scoraggiare l’eventuale intervento di terzi in operazioni di recupero;
  • la salvaguardia del contratto di affitto di azienda, definito nell’ambito di accordi stragiudiziali in caso di fallimento;
  • la restituzione al turnaround manager di tutte le leve di gestione di un programma di risanamento, incluse operazioni straordinarie (dismissioni, concessione di garanzie) precedentemente a rischio di illiceità nel caso di fallimento.

Di non poco conto le ricadute: in primis, la salvaguardia di diverse categorie di stakeholder (dipendenti, fornitori, sistema bancario, lo Stato stesso in quanto percettore di imposte); la rivalutazione dei “normali” criteri di efficienza ed efficacia gestionale, prima sacrificati in nome della conformità a principi di legge (si pensi all’applicazione rigida e incondizionata della par condicio tra i creditori); il diverso approccio di molti operatori, non più di rifiuto a priori, ma di tipo proattivo.

Partendo da queste premesse, il mercato si aprirà e cambierà strutturalmente: fino ad oggi il turnaround era un mercato di nicchia, per specialisti molto abili a districarsi nel groviglio delle procedure e per lo più operanti secondo modelli predefiniti (creazione di una new-co, liquidazione della old-co, affitto di ramo d’azienda), ciò che, unito ai rischi di revocatoria, ne limitava fortemente l’interesse per gli investitori istituzionali.

Si preparano nuovi giocatori: fondi italiani ed esteri, anche dedicati; società di consulenza e di temporary management (seguendo modelli stranieri); gruppi interdisciplinari di professionisti, capaci di coniugare gli aspetti tecnici di gestione delle procedure, con quelli manageriali di gestione dell’impresa in crisi.

Le risorse finanziarie non dovrebbero mancare, se è vero che una parte degli oltre 4 miliardi di euro oggi disponibili per investimenti verrà dirottata verso queste nuove tipologie di impiego, a fronte di una riduzione attesa dei rendimenti sulle tipologie più tradizionali.

Un fattore chiave sarà la disponibilità di adeguate competenze manageriali, poiché un intervento di turnaround richiede un maggiore coinvolgimento operativo rispetto alle tradizionali operazioni di private equity, sia diretto da parte degli investitori (fattore critico di successo secondo una recente ricerca di McKinsey), sia attraverso senior manager specializzati.

È in sensibile aumento il numero di coloro che, dopo esperienze di risanamenti in contesti complessi, preferiscono un ruolo di temporary manager investitore a quello di dirigente tradizionale (senza contare il loro ruolo proattivo quali intercettatori di potenziali operazioni, di cui conoscono tutti i dettagli operativi).

Il turnaround manager rappresenta la sublimazione del concetto di temporary manager: lavora a tempo per definizione, vende know-how, è capace di elaborare un progetto e di implementarlo. Non servono nuovi albi: basterebbe un semplice processo di qualificazione cui partecipino gli stakeholder tipici di queste situazioni, ovvero banche, società di private equity, rappresentanti del mondo aziendale e soprattutto società con all’attivo un significativo numero di turnaround realizzati.

Affinché però il potenziale insito nelle nuove norme si traduca in realtà, è necessario operare affinché, in tutto il sistema e nella componente manageriale in particolare, siano presenti in maniera significativa le competenze necessarie ad una gestione efficace delle situazioni straordinarie. Gestione efficace che inizia con l’assunzione di un nuovo ruolo da parte del sistema bancario che, data la sua posizione di osservatore non neutrale privilegiato, meglio di altri attori potrà farsi parte attiva per:

  • aumentare la capacità di prevenzione del sistema, attraverso ad esempio la creazione di organismi di monitoraggio partecipati da imprese, agenzie locali per lo sviluppo del territorio, professionisti, associazioni imprenditoriali e manageriali in qualche modo interessate
  • accrescere la tempestività di segnalazione delle situazioni di crisi o di discontinuità, attraverso il rafforzamento della capacità di autovalutazione da parte imprenditori (quante volte essi stessi se ne rendono conto troppo tardi!) e sistemi di supporto specifici: altro punto questo dove un’azione istituzionale da parte delle associazioni manageriali si rivelerebbe utilissima
  • gestire queste situazioni in un’ottica di sistema locale attraverso un tavolo di concertazione (come in pratica si fa già oggi per le grandi crisi)

Creare una nuova cultura e nuove competenze di gestione delle crisi, e del rischio in senso più ampio, attraverso un’attività istituzionale con gli stakeholder rilevanti.Deve però essere chiaro che il nuovo quadro normativo non può da solo colmare l’attuale skill shortage di fondi specializzati e di turnaround manager, mentre tanti sono gli specialisti di procedure fallimentari, a fronte di un mercato potenziale stimato, nella sola fascia di imprese con fatturati tra 30 e 60 milioni, in circa 400 imprese come possibile target.