Impresa familiare, le tasse per i conviventi

di Barbara Weisz

Pubblicato 27 Ottobre 2017
Aggiornato 30 Ottobre 2017 16:00

La tassazione applicata ai parenti che hanno quote nell'impresa familiare si applica anche al convivente di fatto: chiarimenti Agenzia delle Entrate sull'applicazione della legge Cirinnà.

Il reddito spettante al convivente di fatto derivante dalla partecipazione agli utili dell’impresa familiare è tassato in proporzione alla quota di partecipazione, anche se si configura un rapporto che comporta lo status di familiare. Lo chiarisce l’Agenzia delle Entrate rispondendo a specifico quesito di un contribuente sulla corretta interpretazione della legge Cirinnà (76/2016) in tema di convivenza di fatto e impresa familiare. I dettagli sono contenuti nella Risoluzione 134/2017.

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Il punto è che la legge prevede una differenziazione fra unione civile e coppia di fatto per quanto riguarda le normative sulla partecipazione agli utili dell’impresa familiare, con conseguenze sul corretto regime di tassazione applicabile. Nel caso dell’unione civile, la legge estende ai partner le disposizioni che si riferiscono al matrimonio. Quindi, il partner in unione civile è a tutti gli effetti equiparato al coniuge, ed è di conseguenza un parente.

Per quanto riguarda i diritti del convivente che entra nell’impresa familiare come socio, invece, sono regolamentati introducendo nel codice civile l’articolo 230-ter, in base al quale «al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa   dell’altro convivente» è riconosciuto «il diritto di partecipazione agli utili dell’impresa familiare e ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato». Il diritto di partecipazione non spetta nel caso in cui tra  i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato.

Il regime tributario applicabile all’impresa familiare è invece regolato dal comma 4 dell’articolo 5 del Tuir, il testo unico imposte sui redditi, in base al quale il 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore va riferito, proporzionalmente alle quote di partecipazione agli utili, a ciascun familiare che abbia prestato in  modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa». Il punto è che la legge prevede che per questa tassazione proporzionale delle quote i soggetti debbano appunto avere lo status di familiare, che si riferisce a coniuge, parenti entro il terzo grado, affini entro il secondo grado. E non c’è alcun riferimento diretto all’articolo 230-ter del codice civile, che riguarda appunto i conviventi di fatto.

Questo, segnala l’Agenzia delle Entrate, «porterebbe ad escludere l’applicazione a tale ultima ipotesi della norma fiscale richiamata». Tuttavia:

«il  riferimento alla partecipazione agli utili dell’impresa familiare spettanti al convivente, contenuto nell’art. 230-ter, consente di applicare anche a questa fattispecie i principi generali che hanno portato alla collocazione dell’impresa familiare all’interno dell’articolo 5 del TUIR».

134/2017