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A proposito di Temporary Export Management

di Anna Fabi

Pubblicato 20 Marzo 2015
Aggiornato 16:00

Internazionalizzazione, Temporary Export Management, made in Italy: un'analisi ad ampio spettro dagli operatori di settore.

Gentilmente riceviamo e volentieri pubblichiamo.

Nei giorni scorsi abbiamo letto su queste colonne diverse affermazioni sul Temporary Export Management che ci paiono sinceramente poco edificanti rispetto soprattutto a ciò di cui ha oggi bisogno il nostro paese. Abbiamo fatto presente la cosa alla Redazione di PMI.it che ci ha chiesto di scrivere questo articolo nel rispetto dell’indipendenza e trasparenza di cui PMI.it vuole essere garante. Ringraziamo quindi la Redazione, sottolineando che quanto segue è nostra opinione personale e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Editore.

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In Italia, purtroppo, ciclicamente vi sono espressioni, temi, dizioni che vanno di moda. Oggi internazionalizzazione è una di queste, e così il Temporary Export Manager (TEM). L’Italia è ancora il decimo paese esportatore del mondo, ovvero ci sono solo 9 paesi (su circa 190 che vengono considerati dalle statistiche internazionali) che esportano più di noi. Come è possibile che si parli allora della necessità di internazionalizzarsi? Il tema è proprio che esportare non è internazionalizzarsi, e l’Italia in generale non è un paese che ha la cultura dell’internazionalizzazione. La dimostrazione di questo è che siamo ancora uno dei migliori paesi manufattori al mondo, ovvero siamo bravissimi a costruire, ma perdiamo competitività sui mercati internazionali, ovvero non sappiamo vendere. E siamo ancora tra i primi 10 al mondo, perché trainati in un modo o nell’altro dal terzo brand più conosciuto al mondo: made in Italy.

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Sul perché non sappiamo vendere, incide appunto la nostra scarsa cultura dell’internazionalizzazione, che non significa andare a produrre all’estero, ma significa conoscere e quindi capire i diversi mercati mondiali, per poter “adattare” il nostro prodotto a tali diversi mercati. E questo perché non si vendono più prodotti, ma soluzioni, ovvero il prodotto insieme al vestito confezionato per quel mercato.
Se tutto questo è vero – e la Roncucci&Partners dopo 25 anni sul campo, 45 paesi nei quali si è lavorato e 600 aziende portate sui mercati internazionali può testimoniare che è vero – è proprio la figura del temporary export manager che serve all’Italia? Le aziende italiane hanno proprio bisogno di chi va in aziende mezza giornata la settimana e in outsorcing cerca di vendere, magari perché la società di consulenza si è costruita enormi data base di potenziali interlocutori per poter vendere? Cosa rimane all’azienda cliente? Che tipo di cultura e di consolidamento commerciale si crea in azienda? Certamente si venderà un po’, certamente nel breve qualche euro lo si porta a casa, ma nel medio e nel lungo periodo, come si può affermare che il temporary export manager è la soluzione ai problemi di esportazione, o meglio di internazionalizzazione?

Da anni combattiamo questa battaglia culturale, in un paese che non è più capace di creare per il futuro, ma che vede solo nella risoluzione di problemi di oggi l’obiettivo da raggiungere, senza pensare che magari quello che facciamo oggi è un danno per domani. Pensando alla situazione di passaggio generazionale in cui sono le aziende, pensando alla progressiva crescita di una cultura manageriale mirata ai mercati internazionali. Per continuare a vivere in Italia. Per scelta Roncucci&Partners non assiste imprese che vogliono chiudere in Italia e spostarsi all’estero, perché andare all’estero oggi significa andarci per entrare e crescere su quel mercato e non per trovare costi più bassi.

Nella dizione con cui viene promossa oggi, Roncucci&Partners dal 2007 fa temporary export management e non risponde a verità quanto letto su queste colonne negli ultimi giorni, che qualcuno ha inventato il TEM tre anni fa. Però noi facciamo TEM introducendo ed affiancando risorse giovani e non sostituendoci all’azienda. Crediamo che il TEM senza una attività di mentoring prestata ad una risorsa che stabilmente entra in azienda, sia inutile ed anche dannosa.

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La domanda vera, quindi, che ci dovremmo porre è la seguente: ma vale veramente la pena che il Governo italiano stanzi 20 milioni di euro, in voucher da 10.000 euro per ogni azienda, da spendere per un temporary export manager, magari corrispondente ad un giovane formato in un corso di qualche mese, per vendere sui mercati internazionali? Noi crediamo che se questo non va accompagnato da una funzione di tutoraggio di questi giovani, di un affiancamento da chi ha una lunga esperienza e soprattutto frequentazione dei mercati internazionali, siano denari pubblici spesi male, che non aiutano a far crescere le imprese, ovvero a contribuire a strutturare quella cultura dell’internazionalizzazione che è variabile necessaria, anche se non sufficiente, per riprendere un ruolo da protagonisti sui mercati internazionali.

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Non serve un giovane in azienda mezza giornata alla settimana, ma serve conoscere i mercati internazionali, capire che vendere in India non è vendere in Brasile, vendere in Germania non è vendere in Spagna. Questa è la ragione per cui Roncucci&Partners ha investito in proprie sedi e in proprio personale all’estero: in Serbia, in India, in Brasile, in Tunisia, in Sudafrica, in Germania. Questa è la ragione per cui per fare internazionalizzazione occorre esserci andati ed andarci costantemente, all’estero.

Si dirà che intanto il TEM aiuta a vendere, e per alcune imprese può essere vero, ma sicuramente non è la soluzione nel medio periodo, dove occorrerebbe spendere i denari pubblici per formare giovani ad essere project manager per l’internazionalizzazione, e non export manager nel vecchio significato con cui si è venduto fino a 15 anni fa, ma che oggi non va più bene.
E le più o meno grandi società che si propongono per fare da ufficio estero in outsourcing, vendendo TEM, non stanno facendo il bene dell’Italia, ma forse di qualche impresa che intende guardare all’oggi per sopravvivere, con le dovute eccezioni che confermano la regola. Però in questo paese si sfrutta un bisogno, si cavalca una moda, si guarda a riempire la pancia oggi, anche se poi domani non ci sarà più da mangiare.

Ci piacerebbe una Italia in cui tutti pensassero al domani, dove, scuola, università, associazioni, enti locali, imprenditori e sindacati pensassero a cosa ci servirà domani e dove soprattutto le scelte politiche delle Istituzioni creino le condizioni per mettere le basi di un cambiamento che incida realmente sul futuro delle nuove generazioni e non alimenti la cultura dell’effimero, perché il futuro dei nostri figli si costruisce oggi.