Sharing Economy in Italia: guida ai servizi

di Barbara Weisz

10 Novembre 2015 09:00

Turismo, trasporti & Co in ottica Sharing Economy: guida ai servizi in Italia, opportunità di business, impatto sul mercato e implicazioni di concorrenza.

Un modello economico basato sulla messa a profitto di beni, servizi o competenze sotto-utilizzate, attraverso la condivisione in Rete: la Sharing Economy è un settore emergente ed emblematico del modo in cui le nuove tecnologie, in particolare il Web, cambiano abitudini e stili di vita, ma anche pensare un servizio e fare impresa. I campi di applicazione sono molteplici. Fra gli esempi di maggior successo: Uber, che muove una flotta di autisti senza possedere nemmeno un’auto, ed Airbnb, con cui prenotare in tutto il mondo alloggi privati compresi igloo e palafitte.

=> Sharing economy: modello Uber allo studio UE

Secondo una ricerca Mosaicon, in Italia le piattaforme di Sharing Economy sono 111, per un fatturato di 1,5 milioni di euro. Una nicchia affacciatasi sul mercato da poco ma che cresce in fretta. Un business emergente, quindi, ma di tale portata (anche se il reale giro d’affari è difficile da misurare) da produrre effetti concreti tanto sul fronte normativo quanto su quello dei modelli di business. Nuova Eldorado del Web o formule di concorrenza sleale nei confronti degli operatori accreditati? In attesa di risposte legislative, vediamo alcuni dei servizi disponibili in Italia.

Autotrasporto

Servizi di condivisione auto sfruttando le potenzialità Internet per mettere in contatto domanda e offerta, indirizzandosi a un preciso target. Uber è ormai una realtà internazionale, con centinaia di dipendenti e migliaia di autisti, ma travagliata da problemi sindacali e legali in diversi paesi (cause negli USA, in Germania e Italia). L’obiezione di fondo: eserciterebbe concorrenza sleale verso i tassisti, che pagano tasse più alte e sono sottoposti a regolamentazioni più stringenti. Blablacar è diversa (ridesharing): classica piattaforma di condivisione del tragitto in automobile per ammortizzare le spese. Fondata nel 2006 in Francia, vanta oggi una community di 20 milioni di iscritti in 19 paesi. Simile la start-up tutta italiana Gogobus, un social bus-sharing per organizzare tragitti lunghi. Un altro esempio di sharing economy è il car sharing di Car2Go, Enjoy o Twist. Qui sono le imprese a sfruttare un proprio parco auto per vendere un servizio.

=> Sharing economy da record: il caso Enjoy

Viaggi e Turismo

Il gigante del settore è Airbnb, con 600 dipendenti e un milione di stanze in affitto in tutto il mondo (gestisce il 17% dell’offerta ricettiva di New York, il 12% di Parigi, il 10% di Londra). La piattaforma mette in contatto il proprietario o inquilino dell’immobile con il turista, con pagamento online (fiscalmente regolare) e regolamenti locali da rispettare in ambito bed & breakfast (numero di camere, posti letto, giorni di apertura e via dicendo) ma raccogliendo le lamentele degli albergatori su cui gravano maggiori costi di gestione delle strutture, adempimenti e oneri fiscali. Tra gli altri segnaliamo Zestrip, un’app che mette in contatto i turisti con le persone del luogo, una sorta di piattaforma per guide free-lance. Sailsquare favorisce l’incontro fra domanda e offerta di vacanze in barca a vela.

=> Home restaurant senza regole: facciamo il punto

Altri ambiti

Nel campo della ristorazione, la sharing economy si concretizza negli home restaurant, cene a casa propria aperte al pubblico grazie alla pubblicazione dell’evento su social network o piattaforma dedicata (come Gnammo). Questo è un settore ancora molto poco regolamentato, con relativi timori dei ristoratori. Può essere considerato un esempio di Sharing Economy la condivisione di spazi di lavoro in coworking: una soluzione utilizzata da professionisti ma anche imprese, ad esempio start-up che ancora non hanno un ufficio grande. Negli USA, Amazon Flex permette ai membri della community di diventare fattorini nei ritagli di tempo, visualizzando via smartphone se nella propria zona c’è un pacco da consegnare (guadagnando fino a 25 dollari).

Pro e contro

Come si vede, sono forme di business diverse. In buona parte si tratta di attività esercitabili per arrotondare ma a volte anche di opportunità per fare impresa. Le potenzialità in questo senso sono spesso sottolineate da istituzioni pubbliche e associazioni imprenditoriali, con esperimenti e iniziative. Esempi: API Milano (piccole e medie industrie) ha aderito alla rete del Comune meneghino per la promozione di iniziative di sharing economy. L’obiettivo, come spiega il presidente Paolo Grassi, è:

«mettere a sistema competenze, fare rete, condividere progetti e soluzioni per essere più forti e fare in modo che Milano continui a essere non solo capitale dell’innovazione ma sempre più osservatorio sui nuovi modi di fare industria oggi».

Accanto alle opportunità ci sono però anche i punti critici, e non di poco conto. I settori in cui dominano piattaforme importanti sono alle prese con problemi di concorrenza. Alberghi, tassisti, agenzie turistiche e ristoratori sono sul piede di guerra chiedendo regolamentazioni e un’applicazione stringente. Altra questione aperta: l’impatto sul mondo del lavoro. L’esempio dirompente è Amazon Flex con il lavoro on demand, su cui il dibattito è accesso a livello internazionale.

Fra punti critici e difficoltà normative, la strada della Sharing Economy è dunque ancora in salita, ma le analisi ne confermano l’elevato potenziale. Secondo PricewaterhouseCooper (PwC), il fatturato è destinato a salire a 335 miliardi di dollari in dieci anni. Cinque i settori chiave: finanza peer-to-peer (+63%), online staffing (37%), car-sharing (+25%), streaming di musica e video (+17%), ospitalità (+31%).