Scarsa competitività  dell’IT nel 2008: da dove ripartire?

di Riccardo Simone

Pubblicato 14 Ottobre 2008
Aggiornato 12 Febbraio 2018 20:43

Il settore dell’Information Technology da oltre quindici anni, cioè da quando ha assunto un ruolo fondamentale per l'economia mondiale, non rappresenta più un punto di forza dell’industria italiana. Nulla di nuovo.

È una novità  invece che l’Estonia abbia scavalcato l’Italia nella classifica sulla competitività  del settore IT, stilata dall’Economist Intelligence Unit.

Stando ai dati raccolti dall’EIU su 66 Paesi, il nostro è sceso dalla 23esima posizione del 2007 alla 25esima del 2008, a favore di Spagna e, appunto, Estonia. In ogni caso è sempre ben lontano dalla top 20, che vede primeggiare, nell'ordine, Stati Uniti, Taiwan e Regno Unito.

Fin qui la notizia. Ma prima di trarre conclusioni affrettate è sempre meglio analizzare più in dettaglio metodologia e impianto della ricerca, nonostante l'autorevolezza della fonte.

Il report soffre di una contraddizione strutturale piuttosto forte: se dal punto di vista teorico si predica una maggiore apertura al mercato come strategia “vincente”, nella pratica della rilevazione si privilegiano aspetti come la ricerca, l'istruzione, l'infrastruttura IT e il supporto allo sviluppo di imprese IT, su cui l'influenza del settore pubblico è molto rilevante.

Inoltre lascia qualche perplessità  trovare due colossi quali Cina e India nella parte bassa della classifica, considerati come Paesi con grandi potenzialità  che emergeranno nei prossimi anni.

Partendo da queste considerazioni si può dare una chiave di lettura interessante della situazione italiana. Dai dati emerge che il tallone d'Achille è la mancanza di una strategia che favorisca lo sviluppo del settore IT, in termini sia di nuovi business sia di espansione del mercato interno.

Le potenzialità  non mancano, lo testimonia il fatto che la R&S e il capitale umano sono due parametri in cui l'Italia è alla pari se non superiore rispetto ad altri Paesi. Però occorrono investimenti strutturali che valorizzino effettivamente questi talenti, in modo da evitare il cosiddetto “brain drain“, la fuga di cervelli. Non è una strada facile, ma è l'unica possibile.