Cultura del lavoro e uso responsabile della Rete

di Claudio Mastroianni

Pubblicato 21 Gennaio 2008
Aggiornato 12 Febbraio 2018 20:44

Do ragione anche io – come i suoi commentatori – a Gianluca di [mini]marketing, e alla sua “opinione piuttosto radicale” in risposta al post dello scorso 16 Dicembre sul Social Networking e sui suoi costi per l’azienda:

Se avete assunto perditempo o gente – per riassumere – “limitata” (o li avete trasformati in queste tipologie), nessun blocco di internet li trasformerà  in dipendenti modello e vi farà  recuperare i 2700 dollari [il presunto costo del Social Networking, NdR] – continueranno a cazzeggiare in altro modo, o se non ci riusciranno semplicemente spegneranno del tutto il cervello e/o rallenteranno fino al surplace ogni compito come orsetti con pile non duracell.

Ma mi permetto di aggiungere una cosa (e di spostare il discorso dagli Stati Uniti all’Italia: nel Bel Paese, molto spesso (se non sempre) manca una corretta cultura del lavoro. Ed è un problema a monte. Decisamente difficile da risolvere, tra l’altro.

Intendiamoci: non è una novità , anzi. È un argomento trito e ritrito. Però si sa, l’Italia è il “paese dei furbi”, e non è certo l’impegno ad essere premiato, né i risultati. Al primo posto sta sempre l’apparenza.

Capita così che molte persone non capiscano cosa sia effettivamente il lavoro, e credano che il proprio contratto sia legato alla quantità  di ore che si passano su una sedia, e non alla qualità  del risultato prodotto.

E questo vale – per l’appunto – non solo per i dipendenti, ma anche per gli stessi datori di lavoro che si illudono che cronometrare la quantità  di minuti persi in pausa possa effettivamente permettere di tenere sotto controllo la produttività  del proprio sottoposto.

Il problema, come dicevo, è a monte: occorrerebbe inculcare in tutti (manager & dipendenti) che lavorare vuol dire impegnarsi e che l’impegno non si misura in ore. Più facile a dirsi che a farsi.

Ma non è una cosa che si possa insegnare a scuola, ovviamente. Né che si riesca a imporre in impresa mediante politiche aziendali o rivendicazioni sindacali.

Si dovrebbe al massimo innescare un ciclo virtuoso, guidato da imprenditori illuminati che sappiano stimolare il dipendente e valorizzare il risultato più del tempo impiegato a raggiungerlo (nei limiti dell’accettabile, ovviamente). Ma accompagnato anche da dipendenti responsabili che decidano di non approfittarsi di questa “rivoluzione” per dedicarsi a sessioni di acuto lassismo.

Il punto è: noi italiani, siamo pronti a una cosa del genere? La mia risposta – se vi dovesse interessare – è “no”.