Impresa e innovazione "all’italiana": le Pmi uniche promosse dal Censis

di Alessandra Gualtieri

Pubblicato 12 Dicembre 2007
Aggiornato 12 Febbraio 2018 20:44

Hanno suscitato un certo scalpore quelle note così amare, riportate con dedizione da tutta la stampa nazionale, con cui si apre l’ultimo Rapporto Censis su società , economia, industria e mercato italiano nel 2007.

Uno spaccato sui trend generali che interessano lo sviluppo del Paese, con un focus attento sul binomio innovazione ed imprenditorialità . E le parole del Censis non sono gentili:

“Una realtà  sociale che inclina pericolosamente verso una progressiva esperienza del peggio ed in cui le offerte innovative possono venire solo dalle nuove minoranze attive”

Uno scenario a dir poco preoccupante per il mondo d’impresa, da una parte sfiancato da certe politiche asfittiche e conservatrici, dall’altra forse incapace di sorreggersi sulle sole forze trainanti di un vivace sottobosco di piccole e medie imprese innovative, giovani e motivate.

Ma davvero la forza innovatrice del Paese vive soltanto in quella minoranza industriale, sempre più orientata alla tecnologia e alla globalizzazione, rappresentata dalle Pmi?

In un certo senso sembrerebbe proprio di sì, soprattutto se ci riferiamo a quelle imprese che puntano ai servizi di fascia alta, che sono sinonimo di qualità  ma che in Italia – purtroppo – vogliono dire anche mercato di nicchia. Almeno per il momento. Certo, le cose potrebbero cambiare proprio grazie a questa nuova mentalità  che sta fiorendo fra le piccole e medie imprese.

Eppure, quella attuale è ancora “un’Italia che cresce ma che non si sviluppa“, come si legge nel rapporto. Parole forti che difficilmente ci si sente di contraddire, e che trovano conferma non soltanto nelle peculiarità  della nostra economia ma anche nei risvolti di mercato, riflettendosi in una domanda ancora immatura in troppi segmenti, penalizzati dall’arretratezza di certe politiche d’investimento che seminano ma non creano le condizioni per “raccogliere”.

Pensiamo prima di tutto alla Ricerca che, senza voler banalizzare un concetto universalmente condiviso, è chiaramente il volano di qualunque sviluppo sostenibile: tecnico, scientifico, economico e sociale.

Quali prospettive hanno oggi i giovani professionisti italiani? Quante opportunità  hanno le nuove leve imprenditoriali? Quanto è concreto il Italia il concetto di “trasferimento tecnologico alle imprese”? Quanto pesa lo sbilanciamento fra fondi pubblici e capitale privato per lo sviluppo di start-up e aziende innovative?

Negli ultimi dodici mesi mi è sembrato di notare un incremento significativo dei programmi di investimento del tipo venture capital a carattere strettamente privato, di iniziative di supporto alle imprese promosse dalle banche piuttosto che dai ministeri, e da figure industriali straniere piuttosto che italiane, così come anche molti progetti innovativi sponsorizzati da player d’Oltreoceano.

Allo stesso tempo, gli sforzi maggiori sembrano provenire direttamente dal tessuto vivo del Paese, quelle piccole e medie imprese dove si concentra la volontà  di portare avanti la Ricerca intesa come qualità  di prodotto e motore di nuova imprenditorialità .

Un terzo delle Pmi italiane con meno di 20 addetti (145 mila piccoli imprenditori) investe il 13% delle proprie energie per produrre competitività  (1,8 miliardi l’anno, pari al 19% delle spese aziendali). Non solo, il 42,6% di chi è attento all’innovazione realizza attività  di ricerca anche in modo informale, mentre oltre il 73% utilizza processi e tecniche di produzione innovativa, il 63,5% si dedica all’innovazione di prodotto e il 61,5% introduce nuovi materiali nei propri cicli produttivi.

D’altro canto, come sottolinea il rapporto Censis, “non tutti gli investimenti in R&S generano innovazione e non tutta l’innovazione nasce dalla ricerca“…